di Francesco Capalbo
Nell'estate del 1987 Giorgio
Taborelli, allievo di Fernand Braudel, in occasione del duecentesimo
anniversario del “Don Giovanni” di Mozart, iniziò gli studi che lo avrebbero
portato alla realizzazione di un monumentale lavoro, in quattro volumi, sulla
vita di don Juan Tenorio y Rodriguez de Urtago.
Lo scrittore milanese, storico della
cultura, fu per un trentennio l’anima degli Amici della Scala e amò
particolarmente la figura di don Giovanni che da secoli incarna l’archetipo
dell’uomo mediterraneo, sempre avvolto in una coltre di ebbrezza sensuale.
Il don Giovanni frutto della creazione
artistica di Taborelli è un individuo che si comporta come un principe e come
un brigante, cavalca la vita e la doma con la gioia di viverla; è un viveur
democratico: monta tutte le donne con eguale ardore, siano esse bianche o nere,
belle o brutte, dritte o gobbe, grinzose o gonfie.
La sua morale non ammette un Dio che
abbia dato al mondo la facoltà di amare, se prova poi piacere nel castigare per
una possibilità che lui stesso ha concesso. Ad un Dio che soffoca il corpo,
preferisce gli dei licenziosi di Lucrezio.
La sua esistenza è una continua invocazione
rivolta al Signore dell’orgasmo, al Dio delle alcove “che avrebbe potuto darci
figli accoppiandoci nello starnuto e nel singhiozzo ed invece ha inventato la
schiuma della carne”.
La riconoscenza per questa sacra essenza
è totale:” Tu sia lodato per quante fanciulle hai fatto belle e vendemmiato
dalla vulva di Eva, come grappoli di nettare nella vigna dei secoli, come favi
di miele nei giardini dell’Eden, come cesti di lume nell'azzurro del crepuscolo
e come prati di viole allo stupore dei ragazzi. Tu sia lodato per le loro
mammelle, dove il latte che non c’è è dolce per la bocca dell’uomo quanto
quello che cola; tu sia lodato per le loro coppie di gambe e di mani, di occhi
e di natiche. Ma tre volte santo per ciò che in loro è unico, per il cuore e la
bocca, per il ventre e la schiena, per il sesso che tutte queste meraviglie ha
dintorno e tutte le governa con il ritmo possente dei suoi mesi”.
***
Nel primo dei volumi della
quadrilogia: “Il giardino dei melograni”, pubblicato nel 2006 dalla casa
editrice Ponte alle Grazie, don Juan Tenorio racconta in forma autobiografica
gli anni che vanno dal 1598 al 1602.
Egli è un nobile di casata spagnola
che, rimasto orfano, è stato allevato a Siviglia da un notaio e da un moro,
abile istitutore. Uno zio è vescovo influente alla corte di Madrid, un altro è
capitano del vicereame di Napoli.
Ha appena quattordici anni don Juan
quando sulla nave di un mercante catalano, entra col suo moro, nel porto di
Napoli, città nobilissima e popolosa, la più grande e festosa della corte di
Spagna.
Il virgulto dei Tenorio avrebbe voluto
perlustrarla in lungo ed in largo, ma altre esplorazioni lo attendono.
Scaricati i bagagli, è costretto a
raggiungere Posillipo, ospite gradito della bella e ardente donna Laura,
marchesa di Taurano, in gioventù amica di sua madre.
La buona sorte lo accompagna nel suo
vorticoso incedere: il conte di Avellino e lo zio capitano lo presentano alla
corte del viceré don Francisco de Castro, che lo iscrive nella nobiltà
dell’antica città di Capua e gli assegna la terza parte della Commenda
dell’Abbazia di Acquaformosa nell'alta Calabria.
Con una rendita ed un grado militare,
don Juan deve per forza di cose avere una truppa e pertanto viene mandato a
comandare quella acquartierata nel Castello di Altomonte, paese circondato da
popolazioni di etnia albanese, in eterna rivolta.
L’ordine vicereale è controfirmato dai
28 componenti della Casa dei Sanseverini, signori di quei luoghi. Ad Altomonte
l’imberbe spagnolo assumerà la luogotenenza della truppa come alter ego del
Principe di Bisignano.
***
Otto sono i mesi che Giorgio Taborelli
fa trascorrere a don Juan nel castello di Altomonte.
Il giovane non ha particolare propensione per
il comando, ma tutte le incombenze vengono assolte con equilibrio dal suo
moro. Con le popolazioni mantiene buoni
rapporti; spesso nel visitarle si ferma davanti a povere stamberghe e senza
arrecare disturbo regala a chi le abita pane e vino.
Nutre rispetto per i ribelli albanesi
in quanto ritiene che facciano parte di un popolo nobile ed antico, non mite,
ma capace di fedeltà alle proprie idee.
È la caccia la sua vera passione e lui
l’asseconda tra i boschi di Altomonte, di Lungro e di Acquaformosa spingendosi
sempre più in alto, fino a lambire le sommità innevate della Mula.
Parte in carovana, con bandiere e
tamburini, con i muli carichi di barili di vino e di acqua e con le casse
ricolme di pane. Torna dopo notti di bivacco passate al freddo, con pelli di
lupo che benignamente regala ai frati Domenicani di Altomonte per le spose
povere e incinte.
La sua munificenza nei confronti delle donne è
pari al desiderio impetuoso che prova per esse.
Quando il peggio dell’inverno è ormai
alle spalle, don Juan sente di aver portato a termine la sua missione: l’ordine
nei dintorni di Altomonte sembra ristabilito. Da molti giorni non si verificano
più assalti a casali né incendi di borghi.
A primavera un dispaccio del Principe di
Bisignano lo invita a raggiungere San Sosti, un paese nelle vicinanze del
Castello per partecipare, in rappresentanza dei Sanseverini, alla prima tosa
delle pecore e ad uno strano rito arcaico che in quel luogo si celebra, una
festa che ha per protagonisti i mesi dell’anno.
***
A San Sosti don Giovanni arriva con
due sergenti, quattro servi, trenta soldati. In testa le sue insegne e quelle
del Principe di Bisignano.
Alle porte del paese assaggia il pane,
il sale ed il vino che gli anziani del luogo gli portano in segno di rispetto e
si acquartiera ai piedi delle montagne ancora ricoperte di neve.
Mentre i suoi soldati montano il
padiglione, egli risale la gola del Rose e si inerpica per un sentiero che lo
porta al Pettoruto, ove si raccoglie in preghiera ai piedi di una Madonna dai
tratti irregolari che è la negazione della voluttà, ma che ha l’incarnato di un
volto femmineo e pertanto è degna di venerazione.
In paese, con l’aiuto del sempre
presente moro, adempie alle faccende del suo mandato: consiglia i capi dei
fuochi, riceve monaci ed abati, nobili e popolani, dirime controversie,
incoraggia, punisce e premia.
Tutt’intorno è pronto per la tosa: i
teli che devono accogliere la lana per farne delle balle, le funi per legarle,
i sigilli. Dodici tosatori lavoreranno dall’alba al crepuscolo e saranno
sostituiti solo quando cadranno sfiniti da tanto travaglio.
Fornaci ardenti scavate nella terra infornano
pecore e pane. Una girandola di odori
invitanti si mescola con quello acre e ripugnante del sangue poiché, oltre alla
tosa delle pecore, in quei giorni si castrano anche i montoni.
***
Non è possibile purtroppo stabilire se
Giorgio Taborelli, morto nel 2011, sia mai stato di persona nella valle dell’Esaro;
lo scrittore comunque la descrive con una inaspettata sagacia narrativa.
Le placide greggi governate da pastori
e cani che don Juan incontra mentre si sposta verso San Sosti, rimandano alla
transumanza dei pastori di Rotonda che nell'ottocento svernavano nei territori
d’oltre Pollino, in lande ove i nobili locali accampavano gabelle di ogni
sorta.
Il mare di lana che nella descrizione
di Taborelli si muove da ogni rivolo del feudo dei Sanseverini per i polverosi
sentieri dell’Esaro, ha sempre lambito questa terra. Esso si fonde con i tre colori che la buona stagione sembra offrire: il verde intenso degli
alberi, l’azzurro pulito del cielo e il bianco delle lingue di neve che è
possibile scorgere da lontano sui cateti di una geometrica montagna chiamata
Muletta.
L’esercito di personaggi addetti alla
tosa, sembra poi far rivivere l’epopea settembrina dei mandriani che si
spostavano per raggiungere San Sosti, da ogni angolo della Calabria e
accompagnati da cani ed asini, tende e vettovaglie, surduline e zampogne, organetti
e calascioni, governavano gli animali in procinto di essere venduti alla fiera
del Pettoruto.
***
Le popolazioni del luogo sono
assuefatte al tanfo del sangue: “sono ingordi cacciatori e mangiatori di
carne”, scriverà nell'ottocento l’abate Vincenzo Padula.
La puzza di selvaggio ed asprigno che,
in occasione di certe battute di caccia al cinghiale si avverte ancora oggi,
rivela come in queste contrade il diritto primordiale alla sopraffazione di
altre specie sia ben salvaguardato ed anzi benedetto. Il nume tutelare di
queste terre dovrebbe essere sant'Uberto, il sanguigno protettore dei
cacciatori ed invece è una santa mite e pallida come il latte, la protomartire
santa Caterina d’Alessandria.
Anche questo particolare contraddittorio
dello spirito del luogo è recepito dal don Juan di Taborelli.
Davanti al padiglione ove il giovane
Tenorio ha stabilito il suo quartiere generale c’è un ariete che si agita;
prima che la tosa abbia inizio deve essere ucciso. Un prete per tre volte
benedice il morituro che viene legato a testa in giù per le zampe
posteriori. A don Juan spetta il
compito di ucciderlo e lui non si sottrae al rito cruento. Un vecchio gli
indica il punto esatto dove infilare il coltello dalla lama triangolare.
Un gesto pieno di raccapriccio che
nella valle dell’Esaro si ripete da secoli, specialmente durante le gelide
mattinate d’inverno, quando i maiali sono uccisi con un fendente alla giugulare
e il loro stridulo ed inascoltato lamento rimbomba per boschi e dirupi.
Il fluido rossastro dell’animale rende
il giovane Tenorio confuso. Nel ripensare alla scena dell’ariete al quale poi
viene tagliato lo scroto e vengono estratti i testicoli, il riposo notturno del
nobile di Siviglia non è più lo stesso: davanti alla sua tenda sembrano
muoversi scomposte le ombre del Giudizio Universale.
***
Unico motivo di svago per don Juan è
la sfilata della Festa dei Mesi alla quale assiste per due volte.
Ogni mese è impersonato da trenta
paesani che fanno i gesti dei lavori che si susseguono durante il ciclo delle
stagioni: zappare, seminare, sarchiare, potare, mietere, bacchiare,
raccogliere, vendemmiare, mungere, pigiare, torchiare, trebbiare, intrecciare,
macinare, macellare, salare, insaccare. Le comparse agghindate in povere vesti
sono accompagnate da altre persone, uomini e donne, che recano i frutti, i
grani, gli alberi, le bestie corrispondenti all'opera di cui si rappresentano i
gesti scarni e ripetuti.
È un rito pagano, scaramantico e
propiziatore. I riti religiosi in queste
terre sono inefficaci e non difendono le popolazioni del luogo dalle forze
maligne della natura.
Proprio in questi giorni don Juan
conosce una ragazza albanese, una parente del Cavaliere di San Demetrio Corone,
che fino all'anno prima abitava a Durazzo. Parla un idioma strano, un po’
provenzale ed un po’ catalano.
Nel suo letto, tra le montagne di San
Sosti l’adolescente don Juan, nei giorni della Festa dei Mesi e della tosa, si
ritempra fino a diventare esperto nei giochi dell’amore e dorme per la prima
volta, dalla sera al mattino, con una donna.
Rinfrancato da tanto ardore, il
giovane cavaliere della nobile famiglia dei Tenorio si sente pronto a percorrere
le imperiose strade del mondo che lo porteranno nelle Fiandre degli arciduchi
e degli eretici, negli Stati del “Gran Turco” e anche verso il Nuovo Mondo, con
la rinnovata identità di Donhuàn il Magnifico.
Sul finire della sua visita a San Sosti,
don Juan Tenorio y Rodriguez de Urtago stabilisce anche una impudica relazione
con un nuovo compagno: il vino. Quello che beve caldo e addolcito col miele
cotto è vigoroso come quello spagnolo, che gli procura una ebbrezza grave e
composta ed una sonnolenza che non si spegne nel sonno.
Giorgio Taborelli, che ha dato anima e
corpo ad un don Giovanni così passionale e fragile, forse sapeva finanche che
un vino nerboruto e lucente per molto tempo ha diffuso allegria nella valle dell’alto
Esaro. Ora è un nettare introvabile,
poiché in queste terre quasi spopolate, un antico sortilegio fa svanire solo le
cose migliori. Esso nasceva ad un
vitigno, il Guarnaccia, portato in ogni recesso dell’alta Calabria proprio
dagli spagnoli. In Spagna si chiama
tuttora Garnacha e le sue uve vengono trasformate in “Sangre
de Toro”, un vino profumato e corposo, che naturalmente del sangue del toro ha
solo l’intenso colore.
Bibliografia
Giorgio Taborelli, Il giardino dei melograni, Ponte alle Grazie, 2006
Bibliografia
Giorgio Taborelli, Il giardino dei melograni, Ponte alle Grazie, 2006
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