Nel centro storico di San Sosti, addossata alla chiesa di Santa Caterina, la più antica abitazione del paese è sfregiata dall'incuria. Col passare del tempo ha sciupato la sua aurea di discreta ricchezza ed ora esibisce le rughe di una sofferta vecchiaia.
Chi dovrebbe prendersene cura ne ignora il passato.
Nelle sue sobrie stanze il notaio Francesco La Cava apponeva
sui documenti il sigillo del suo tabellionato e donna Adelaide Lancillotta
suonava il piano col terzo pedale.
La residenza, ereditata dai coloni della famiglia La Cava, è
stata abitata da due sorelle e due fratelli che per più di trent'anni l’hanno
trasformata in un’oasi di laboriosa serenità.
Ora sul suo uscio cresce l’erba di “vientu”, una pianta che assoggetta
ed umilia i luoghi disabitati.
Tutto intorno una gragnola di buste di plastiche e di
lattine vuote.
Nonostante sia addossata alla chiesa parrocchiale, la casa ha
pochi devoti.
L’altra mattina mi sono alzato con un pensiero stringente e stanco
di aspettare “l’intervento del governo”, ho afferrato la scopa.
Mi sono detto: noi che abitiamo i paesi dell’interno abbiamo
il dovere di trovare modi nuovi di pregare.
Le orazioni, se non si traducono in gesti utili per la
comunità, rimangono effimere allocuzioni.
E secondo me anche le “assoluzioni” dovrebbero assumere forme
inedite.
Per ogni peccato una doppia modalità di espiazione: una
decade di preci e mezz'ora di sudore per il bene di tutti.
Pregando e liberando dall'erba di “vientu” gli usci delle
abitazioni non più abitate, può darsi che ancora sia possibile ritessere
l’ordito di una narrazione comune.
Invocando il nome di Dio e togliendo
gli sterpi anche dagli stessi simboli del sacro, come nel caso delle colonnine
della Via Crucis del Pettoruto, forse potremo scorgere un comune orizzonte sul
quale posare lo sguardo.
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