sabato 27 dicembre 2014

Vincenzo Spinelli: uno scrittore da far conoscere nelle nostre scuole



di Francesco Capalbo
Il professor Benito Spinelli, se ancora oggi fosse vivo, avrebbe lo spirito di un arzillo signore un pò avanti con l’età.
I molti che a San Sosti ne serbano il ricordo di persona colta e di insegnante sagace, ignorano però come lo stesso fosse figlio di quel Vincenzo Spinelli che, allievo di Giovanni Gentile, svolse una intensa attività intellettuale.
Nato a Sant’Agata d’Esaro l’8 settembre del 1886, fu professore di lettere presso la Pontificia Università Cattolica e l’Università Statale di Rio de Janeiro, presso la facoltà di Lettere di Belo Horizonte e successivamente insegnò nell’Università portoghese di Coimbra.
Chiamato a Rio de Janeiro dall’Ambasciatore italiano Roberto Cantalupo contribuì alla fondazione dell’Istituto Italo – Brasiliano di Alta Cultura che diresse con il letterato Aloysio De Castro.
Ritornato in Italia, dopo un’assenza di quasi quarant’anni, completò la sua carriera come Docente di Storia della Letteratura Portoghese presso l’Università di Bari.
Autore di importanti opere in italiano, castigliano e portoghese morì a Matera il 31 maggio del 1973. Fu saggista oltre che drammaturgo e compose il primo vocabolario Italo – Portoghese (Brasiliano) pubblicato dalla casa editrice Hoepli di Milano.
Particolare successo raccolse il testo “Poesie Sinfoniche” pubblicato a Buenos Aires nel 1933 con la prefazione di Massimo Bontempelli.
Un posto a parte nella vasta produzione letteraria di Vincenzo Spinelli va riservato al volume “Poesia Popolare e Costumi Calabresi” che costituì la sua tesi di laurea. Data alle stampe a Buenos Aires nel 1923, essa evidenziò delle originali considerazioni sulla poesia popolare calabrese.
Ristampato nel 1991 dall’editore di San Sosti Santino Fasano, il testo riporta il famoso “Canto in lode della Madonna del Pettoruto” (Stiddra lucenti chi staj ‘nta ‘ssu punenti…) nelle due versioni, quella sansostese e quella casalino- apriglianese. Il Canto già prima del 1991 aveva trovato ampio risalto nel volume “Il Pettoruto”, dato alle stampe nel 1966 dal figlio Benito, per l’editore Pellegrini di Cosenza.
Particolarmente suggestiva, perché evoca immagini di altri tempi, appare la descrizione della festa settembrina del Pettoruto contenuta nel XVII capitolo, che qui riportiamo: “I festeggiamenti durano per i cinque giorni della fiera, gran mercato annuale, popolato da zingari e imbroglioni e negozianti di tutti i paesi vicini che si fa in un gran prato, nei pressi del Cimitero. Dal nostro paese passano, specialmente la notte, schiere di innumerevoli pellegrini che cantano e ballano per tutta la via, e ogni gruppo ha una o due ciaramelle, o qualche fisarmonica, o qualche chitarra; le donne, ballando, scuotono certi leggiadri tamburelli zingareschi. Il ballo è la fiera tarantella e la gente è così sfinita che sembra ubriaca, né per questo cessa di ballare; quando poi giungono vicino al Santuario diventano addirittura furiosi, e fra le canzoncine urlate da voci infaticabili di donne, i balli e le strida di rivenditori, c’è da perdere la testa”.
L’opera di Vincenzo Spinelli andrebbe proposta tra i programmi d’insegnamento delle Scuole Medie per la profondità con la quale indaga non solo gli aspetti etnologici della nostra terra, ma anche problematiche più complesse come l’emigrazione. In “Tocchi di campana dall’America del Sud”, pubblicato dalla casa editrice Vallecchi di Firenze nel 1932, l’autore analizza ad esempio la situazione degli italiani e della cultura italiana in Argentina.
Ripensando alla produzione letteraria di Vincenzo Spinelli ed al fatto che essa è pressoché sconosciuta, ci viene da pensare che solo partendo dalla Scuola è forse possibile spezzare la catena di cinica indifferenza che non permette ai tanti modelli virtuosi, che pur operano o hanno operato nei nostri angusti territori, di profondere esempi positivi e veramente “alti”.

Le note biografiche riportate in questo articolo sono tratte dall’introduzione di Giuseppe Forestiero al testo di Vincenzo Spinelli:“Poesia Popolare e Costumi Calabresi”, Fasano Editore, Cosenza , 1991.
Si ringrazia la signora Ada Guaglianone in Spinelli per aver gentilmente autorizzato la pubblicazione della foto del suocero Vincenzo Spinelli.


© 2009 Francesco Capalbo

FERMI!

L' eterea professoressa Michela Bilotta ritratta nel dipinto di Raffaele Crovara  sovrastante l'atrio del Liceo Fermi di Cosenza.

di Francesco Capalbo

In questo Natale sotto tono,  c’è almeno una storia spassosa con la quale i cosentini, a corto di tredicesima, per un momento si svagano.
Due deputati del PD cosentino hanno presentato una interrogazione al Ministro della Pubblica Istruzione sollecitandola ad assumere urgentemente e tempestivamente (si noti luso apocalittico degli avverbi!) ogni  utile iniziativa diretta a isolare e depotenziare un grave tentativo di turbamento messo in atto presso il Liceo Scientifico Fermi di Cosenza.
Sembrerebbe a detta dei due illustri politici, che la Dirigente Scolastica, professoressa Michela Bilotta, sia fatta oggetto di una vera e propria campagna di delegittimazione da parte di una minoritaria rappresentanza sindacale culminata, in 11 mesi, in diverse visite ispettive ministeriali.
A svelarci i veri motivi della richiesta di tante visite ispettive da parte della Cgil è stata però una lettera a Stefania Giannini  inviata da Eleonora Forenza, europarlamentare della lista Laltra Europa con Tsipras.
Leuroparlamentare afferma che durante la sua campagna elettorale, famiglie e lavoratori lhanno informata di come in quella scuola si sia consumata una serie ininterrotta di episodi che hanno visto come protagonista, in negativo, Michelina Bilotta.
Altro che perseguitata! La Dirigente Scolastica del Fermi, stando ad Eleonora Florenza, ha della scuola una concezione antidemocratica e padronale. Voleva, tanto per citare un esempio, far pagare alle famiglie i costi dei corsi dei recupero per gli studenti, ledendo chiaramente il diritto costituzionale allo studio. Iniziativa fortunatamente bloccata dal mondo intellettuale della città e dalla FLC- CGIL.
Ora il quesito che si trasforma in sollazzo è il seguente: come mai i due politici del PD hanno messo a sostegno  di una causa così controversa le loro prerogative parlamentari, vituperando finanche lattività del sindacato?
Alcuni pensano che in tempi iellati, di trasformismo dilagante, anche qui in Calabria le spore di quella che una volta fu la sinistra siano costrette, per accreditarsi in ambienti diversi dai tradizionali bacini di consenso elettorale, a menare almeno un fendente ad una organizzazione sindacale ( preferibilmente la CGIL).
Altri invece propendono per una interpretazione estetica. Molti cittadini illustri infatti, colti da improvvisa devozione,  aspirano a  figurare accanto alla professoressa Bilotta in quel prodigioso dipinto dal titolo La Consacrazione del Duomo di Cosenza di Raffaele Crovara  che, già gremito di patrie celebrità, sovrasta latrio del prestigioso  Liceo Fermi.


La foto è tratta dal sito: www.aldopresta.wordpress.com



© 2009 francescocapalbo.blogspot.com


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domenica 19 ottobre 2014

I sassi di San Sosti


di Francesco Capalbo
Nei giorni in cui Matera, per i suoi sassi, viene dichiarata capitale europea della cultura, a San Sosti riemergono umili segni di un decoroso passato.
I lavori di completamento della rete per il metano hanno riesumato i resti di un vecchio tracciato: un esercito disciplinato di pietre, inframezzate da cordoli di cemento.
Ora queste povere pietre sono in attesa di essere ributtate nelle tenebre, coperte (come negli settanta) dai fetidi miasmi dei conglomerati bituminosi.
Io credo pero' che esse prima o poi risorgeranno e forniranno ai posteri la testimonianza della nostra  radicata insipienza...

lunedì 2 giugno 2014

Alle radici del trasformismo. Quella volta che a San Sosti vinse… il re

di Francesco Capalbo

L'immagine proposta rappresenta la prima pagina del Corriere della Sera che annuncia la nascita della Repubblica Italiana.
Se, in quel fatidico 1946, il contributo degli elettori di San Sosti fosse stato determinante per la svolta istituzionale,  forse ancora  oggi saremo ... sotto il vessillo dei Savoia.
Vediamo di capirne il perchè.
Il 16 marzo 1946, finita da poco la seconda guerra mondiale, il decreto legislativo luogotenenziale n ° 98 stabilí che in Italia la Questione Istituzionale, ovvero la scelta tra Monarchia e Repubblica, dovesse essere compiuta dal popolo  mediante un referendum celebrato contestualmente all'elezione di un'Assemblea Costituente (i cui poteri erano limitati alla redazione di una nuova Costituzione ).
Nel Sud buona parte dell'elettorato era monarchico; in favore della Monarchia erano orientati settori consistenti dell'episcopato italiano e lo stesso Papa Pio XII.
La campagna elettorale fu lunga: i monarchici cavalcarono la paura istituzionale del salto nel buio, mentre da parte repubblicana si pose l' enfasi sulle complicità che la Monarchia aveva avuto con il fascismo.
La partecipazione al voto di domenica 2 giugno fu elevata.
Vinse la Repubblica con 12.718.641 di voti pari al 54,3 % di quelli complessivi; ne andarono alla Monarchia 10.718.502 (il 45,7 %), 1.498.136 furono i voti nulli .
Analizzando i dati Regione per Regione si evidenzia come l'Italia si fosse praticamente divisa: al Nord, la Repubblica aveva vinto con il 66,2 % dei voti , al Sud  la Monarchia aveva drenato il 63,8% dei consensi .
I dati aggregati della Calabria non si discostarono molto da quelli meridionali: la Repubblica totalizzò 338,959 voti (il 39,7 %), mentre la Monarchia ne raccolse 514,344 (il 60,3 %).
I risultati riferiti alla sola Provincia di Cosenza sembrarono mitigare la propensione dei calabresi per la Monarchia .
Furono attribuiti allla Repubblica 125.692 voti, il 44,04 % di quelli validi, mentre alla Monarchia ne andarono 159.707 (il 55%).

 Sorprendente ed unico appare invece il dato elettorale di San Sosti: votarono per la Monarchia 1.421 elettori, (l' 88,59%) mentre alla Repubblica furono attribuiti solo 183 voti, l' 11,41% dei voti validi. I voti non validi furono 28, di cui 12 schede bianche.
Niente di tutto ció avvenne nei paesi confinanti. A San Donato di Ninea ad esempio per la Repubblica si  espresse il 60,20 % degli aventi diritto, mentre a Sant'Agata d' Esaro il 60,88 % degli elettori scelse la Monarchia .
La motivazione del successo a San Sosti della Monarchia , con una percentuale  cosí esorbitante di voti, è da correlarsi alla grande capacità di penetrazione ideologica e organizzativa che il fascismo ebbe in paese.
Grandi furono infatti le compromissioni con il vecchio regime fascista da parte di alcuni personaggi  che, finita la guerra, videro nella Monarchia una sorta di baluardo protettivo.
Gli stessi personaggi cercarono, in pari tempo di riciclarsi, adattandosi alle  mutate condizioni politiche e  scegliendo  la Democrazia Cristiana, partito che a San Sosti ereditò dal fascismo uomini, apparati, liturgie e forme  organizzative del connsenso. 

All'elezioni per l' Assemblea Costituente , del 2 Giugno 1946, la DC a San Sosti infatti totalizzò 1.492 voti , Il 93,37 % del totale. 
Due fratelli, gli avvocati Alfio e Baldo Pisani, coinvolti anche ideologicamente nelle vicende del fascismo si accreditarono, in virtù del successo del 1946, come  capi locali del Partito di De Gasperi.
Cooptati, negli anni seguenti, in posti di grande responsabilità (Presidenza della Provincia di Cosenza e della Presidenza Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania) dai verici regionali dello scudo crociato, compirono  scelte sulle quali si abbatterono gli strali infuocati del Partito Socialista Italiano ed in in modo particolare di Giacomo Mancini che imbastì contro di essi una documentata polemica, sia giornalistica che legale e politica con lo pseudonimo di Gino Verità.


sabato 17 maggio 2014

L'orologio di Gramisci


San Sosti: la torre dell'orologio 




di Francesco Capalbo


La skyline di San Sosti
Tutti i luoghi, non solo le grandi città, così come gli esseri viventi, hanno un loro profilo che li rende unici e distinguibili.
C’è un’unica differenza: la silhouette di una metropoli è in continua evoluzione, poiché  incessante è lo sviluppo della sua vita materiale che soggioga interi spazi costringendoli a rapide trasformazioni; la sagoma di un piccolo paese subisce invece mutamenti episodici, all’unisono con la flemma che pervade l’esistenza dei suoi abitanti.
La skyline di San Sosti per esempio, si identifica col campanile della Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, vergine e martire, che sorgendo sopra una sporgenza, è raggiungibile visivamente da ogni punto del borgo. La facciata esterna della Chiesa nel corso degli  anni ha subito pochi cambiamenti: ancora oggi si ha la possibilità di ammirarla  con le stesse fattezze di quando erano in vita i nostri bisnonni. L’ultima volta che essa è stata ritoccata fu  nel 1914, esattamente cento anni fa.
All’epoca il tempio era sprovvisto sia della torre campanaria, che di un orologio pubblico. L’Amministrazione Comunale, presieduta dal farmacista don Gaetano Guaglianone, pensò bene di dare l’incarico ad un agrimensore, don Antonio Guaglianone, affinché redigesse un progetto di campanile. Per l’incombenza fu versata la somma di trecentocinquanta lire.
Il pubblico consesso in quegli anni annoverava tra le sue fila finanche un prete, don Pasquale Guaglianone, che ebbe la possibilità di candidarsi alla carica di consigliere comunale in virtù del clima favorevole alla collaborazione tra clericali e moderati, instauratosi col Patto Gentiloni nel 1913.  
Dalla complicità dei tre affini, venne fuori l’idea di realizzare un torrione sulla cui cima avrebbe trovato posto un prezioso orologio.
Costruita la torre, il marchingegno che scandiva le ore venne fornito per trecentonovantasei lire e ottantanove centesimi, da uno stravagante  personaggio: Salvatore Gramisci. L’aurea di eccentrico era stata affibbiata a quest’ultimo per via delle sue geniali invenzioni. Era riuscito a costruire una cetra con 49 corde; 25 per la mano destra e 24 per la mano sinistra. Anche l’orologio che vendette al Comune di San Sosti era stato progettato e costruito da lui. Esso funzionava con due ruote dentate e mezza e con un solo peso motore.  Di orologi  Il Gramisci ne inventò  anche di più complicati e alcuni di questi vennero identificati col nome di  “Sistema Gramisci Brevettato”. Uno in particolare, a mezzogiorno in punto, pare lasciasse partire un colpo di bombarda udibile a chilometri di distanza. Con i suoi singolari arnesi, l’inventore ebbe la possibilità di partecipare  ad una edizione dell’Esposizione internazionale di Parigi, della quale venne nominato persino membro della giuria d’onore. Genio calabro a tutto tondo, Salvatore Gramisci nacque nel 1881 a Plataci, in provincia di Cosenza, nello stesso luogo che anni prima aveva dato i natali agli antenati di Antonio Gramsci.
La torre campanaria di San Sosti fu inaugurata nel febbraio del 1914 ed a suggellare l’avvenimento rimane una corrispondenza apparsa su Cronaca di Calabria, che porta la data del 24 febbraio 1914: “ Giorni or sono si è inaugurato il nuovo orologio da torre a due magnifici quadranti di porcellana soprastante al campanile della Chiesa Matrice, spicca in una bene costruita torretta merlata e funziona assai egregiamente con piena soddisfazione del pubblico. Il merito d’aver avuto noi un riuscitissimo lavoro va devoluto all’attuale sindaco farmacista Gaetano Guaglianone, il quale degnamente coadiuvato dal segretario capo Vincenzo Straticò nulla tralascia nell’interesse dei suoi amministrati. Nel tributare le più larghe lodi all’egregio farmacista Guaglianone per lo zelo con cui presiede la cosa pubblica, ci aspettiamo da lui tutti quegli indispensabili miglioramenti che il paese attende facendo affidamento sulla sua energia e sulla sua encomiabile diligenza”.
Dopo l’inaugurazione, una folla di vecchiette coi loro scialli che sembravano vele nere gonfiate dal vento, stazionò per giorni e giorni nello spazio prospiciente la Chiesa Matrice, in attesa che ogni quindici minuti il miracolo si compisse e che l’orologio iniziasse a battere prima  le ore e poi i quarti. Constatavano incuriosite e nello stesso tempo spaventate, come la modernità con le sue diavolerie avesse conquistato anche un borgo irraggiungibile qual era a quei tempi San Sosti.
Nel corso degli anni il macchinario fu  affidato alle cure di persone che ad esso si votarono con totale dedizione e fedeltà: il primo fu Giovanni Cauterucci che,  provenendo da una famiglia di fabbri, venne ritenuto “coram populo” in grado di decifrare la perfetta sincronia dell’opera  progettata da Salvatore Gramisci.
Alcuni anni dopo, nell’estate del 1929, quando ormai Giovanni Cauterucci non era più in grado di salire per le ripide scale della torre campanaria, le ruote dentate dell’orologio si incepparono e per molto tempo in paese non fu possibile udire i battiti del tempo.  Al suo capezzale fu chiamato un imberbe artigiano che ne curò il malanno  e lo rianimò. Quando l’orologio ritornò  a  segnare le ore, al giovane demiurgo venne reso un pubblico elogio dalle colonne di Cronaca di Calabria: “Finalmente l’orologio Comunale di cui sentivamo impellente il bisogno, per merito esclusivo dell’intelligente giovane meccanico Alfredo Capalbo, funziona. Vada a Capalbo il nostro “bravo” di cuore”.
***
Del gingillo di Gramisci oggi rimane ben poco. La torre campanaria però è sempre la stessa e dà l’idea di una piccola enclave; assoggettata alla Chiesa, essa di fatto è legata al Comune di San Sosti che ne dovrebbe curare la manutenzione quotidiana. Questo particolare è sottolineato anche dal modo col quale i sansostesi indicano l’orologio : per tutti è “l’orologio da Cumuni”.
I due quadranti dell’orologio ora non sono più di ceramica, ma di semplice vetro e sono usurati dalle intemperie; sopra di essi le ore non sono più leggibili. La porticina del ricettacolo in legno che custodisce le ruote dentate è in parte scardinata; da una finestra della torre campanaria è comparsa un’ antenna che promette, mendace, una connessione internet velocissima.
Agostino
Chissà cosa direbbero, se riportate in vita, le vecchiette che cento anni fa salutarono “u drilloggiu”, nel constatare che altri miracoli si sono nel frattempo succeduti e che essi però non hanno mitigato la pandemia di degrado che affligge i nostri paesi.
Chissà cosa escogiterebbero, per riportare ai vecchi fasti l’orologio, mastru Filippu, Chjrimiddru, Scengagaddru e Gangiulinu u sacristanu che quotidianamente gli diedero la carica e lo unsero di oli rivitalizzanti.
Ora che ha compiuto cento anni, l’orologio è affidato alle cure di Agostino che gli presta la stessa attenzione che serba ai vecchietti del paese. Agostino infatti fa il barbiere e quotidianamente si reca a casa di chi non ha più forza nelle gambe per tagliar loro i capelli.
Per una ventura bizzarra, egli è divenuto anche l’unico confidente di un  centenario che si ostina a battere le ore e i suoi quarti, per ricordarci che il tempo è un amico discreto, ma anche inesorabile. 


© 2009 francescocapalbo.blogspot.com

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