giovedì 30 luglio 2009

Antico rimedio sansostese contro il mal di scirocco



di Francesco Capalbo


Quando l’intensa calura estiva rende l’aria irrespirabile, è possibile trarre sensazioni di sollievo anche… da due foto come quelle da noi proposte. Tratte dal libro “Il Pettoruto” di Giuseppe e di Francesco Marasco, esse ritraggono una la vecchia strada per fra Giuvanni, percorsa da ragazze che andavano a riempire i vummuli (gli orcioli) e da donne che portavano il grano al vecchio mulino e l’altra la fontana e il mulino.
Per noi sansostesi fra Giuvanni rappresenta da sempre una sorta di “rifugio dallo scirocco”, un luogo dove ricercare occasioni di tregua, specialmente nei momenti in cui spira il vento caldo da sud- est che infiamma, solo per pochi giorni, le nostre miti latitudini.
Lo scirocco, in altri posti chiamato ghibli, era ritenuto in passato responsabile di produrre effetti negativi sulla salute psichica degli individui per via dell’umidità e della polvere del deserto che esso porta con sé. Non è un caso che tra le espressioni ormai poco usate del nostro dialetto, sia presente la locuzione “cima di scirocco” utilizzata per definire l’apice di atteggiamenti sanguigni, bizzarri e iracondi.
A noi piace pensare che il nome di fra Giuvanni sia stato attribuito al posto ritratto nelle foto, non solo per la vicinanza al monastero di San Sozonte, quanto per gli influssi benefici che esso esercita sulle sciroccate pulsioni.
Portata a termine la distensiva passeggiata, necessaria per raggiungere dall’abitato di San Sosti il luogo del refrigerio, le umane tensioni sembrano placarsi e dopo un sorso d’acqua fresca le “cime di scirocco” si riducono a semplice scintille che nonostante crepitino con ardore, hanno effimera durata.

© 2009 Francesco Capalbo

martedì 28 luglio 2009

Sabato 8 agosto a San Sosti

"In compagnia di altri oggetti raminghi, la scure di Kyniskos è diventata, col tempo e suo malgrado, simbolo di una ricchezza culturale passata. Di essa noi meridionali ci ricordiamo solo in occasione di patetiche cerimonie, con le quali tentiamo di scuotere la nostra cattiva coscienza, mentre in realtà continuiamo ad annaspare nelle nebbie di un irreversibile torpore."

© 2009 Francesco Capalbo

sabato 25 luglio 2009

Questione di sopravvivenza

di Grazia La Cava

Non esiste biografia, recensione o articolo su Mario La Cava che non ponga l’accento sul fatto che lo Scrittore sia sempre vissuto nella sua Calabria rimanendone fedele fino alla sua morte avvenuta appunto a Bovalino più di 20 anni fa. Lo stesso accade per Fortunato Seminara che quasi sempre viene associato a La Cava per questa comune “anomalia”.
Probabilmente né La Cava né Seminara avrebbero scritto le stesse pagine se fossero emigrati lasciando la loro piccola provincia. Forse i “Caratteri” non sarebbero mai stati partoriti per scarsità di soggetti ispiratori, così come “I racconti di Bovalino”. E Seminara non avrebbe sicuramente scritto “Il mio paese del Sud”.
Ciò che emerge costantemente nei giudizi è considerare “anomalo” il fatto che uomini di cultura (in questo caso) possano aver operato in Calabria riscuotendo, nonostante ciò, discreto successo e grandi apprezzamenti, come se questo fosse un valore aggiunto per il fatto di aver superato prove solitamente non superabili. Si badi bene che questo comune sentire riguarda esclusivamente la Calabria, senza coinvolgere l’intero meridione, come solitamente succede per altri fatti. Ciò non accade, ad esempio, con gli scrittori campani, pugliesi o siciliani.
Ovvia conclusione, quindi, che oggettivamente vivere in Calabria rappresenta un ostacolo per la realizzazione di qualsiasi espressione che abbia a che fare con l’arte e la cultura più in generale, tranne isolate eccezioni, come La Cava e Seminara appunto, che proprio per questo vengono evidenziate ed esaltate.
C’è da chiedersi, a questo punto, se ciò vale solo per le espressioni culturali oppure se esistono oggettive difficoltà in Calabria per la realizzazione di qualsiasi iniziativa o, più semplicemente, per il vivere quotidiano.
L’aspra montagna, le ampie spiagge dello Jonio, le rocce sul Tirreno: la natura ha saputo modellare ad arte questa nostra terra esaltandone i forti contrasti. La gente di Calabria ha saputo adattarsi ed integrarsi all’ambiente e, allo stesso modo, ne evidenzia i contrasti facendo spiccare da un lato l’ingegno di grandi figure nelle arti, nelle scienze, nella cultura e, dall’altro la ‘ndrangheta, le collusioni tra politica e malaffare, l’incapacità, l’oblìo che hanno prodotto nella nostra regione – nel corso di secoli - abbandono, degrado, violenza, ignoranza, arroganza.
Si può obiettare che ciò accade in tutto il mezzogiorno. Giusto. La diversità sta nel fatto che in Calabria in mezzo ci sta il nulla, non esistono mezze misure. O meglio, chi sta in mezzo (la gente onesta, i lavoratori, la maggioranza, cioè dei calabresi) non può (e spesso non vuole) esprimere al meglio le proprie potenzialità nel lavoro, nella creatività, nella quotidianità: realizzare qualsiasi piccolo o grande progetto, valorizzare le proprie capacità diventa in Calabria un esercizio molto più difficile che altrove, un compito quasi proibitivo.
Eppure non mancano negli ultimi tempi apprezzabili espressioni culturali e artistiche che cercano di rimuovere questa secolare immobilità e che fanno ben sperare: manifestazioni di grande spessore artistico, la riscoperta di musica e tradizioni popolari, iniziative culturali.
Finora solo lontano dalla Calabria le capacità, la creatività e l’ingegno dei calabresi si sono potuti esprimere al meglio. Sarebbe ora di cominciare a farlo qui. E’ l’unico modo per sottomettere e respingere l’arretratezza, la violenza e l’arroganza. La speranza è di non trovare ostacoli com’è stato finora. Abbiamo la forza, la voglia e la testardaggine. Ormai è una questione di sopravvivenza.


Bovalino, 25 Luglio 2009


Nella foto: Mario La Cava e Fortunato Seminara



© 2009 Francesco Capalbo


Yes we can!

venerdì 17 luglio 2009

Per gli anonimi costruttori di “Tebe dalle sette porte”



di Francesco Capalbo

La foto, dei primi anni venti, ritrae un gruppo di persone in posa davanti all’obiettivo del fotografo.
Il luogo dell’immagine è la piazzetta di San Sosti (ora piazza della Libertà).
Per le persone che in essa compaiono, la foto fu forse l’unica occasione per offrire ai posteri la documentazione visiva del loro transito per i luoghi nei quali ora siamo noi a vivere.
I loro nomi sono sconosciuti anche perché la “piccola storia” sembra seguire le stesse dinamiche della “Grande storia”. Essa non ama serbare il ricordo dei tanti che hanno vissuto senza ricercare in modo spasmodico la fama, il gesto eclatante e la ricchezza.
Ad essi, costruttori con il loro anonimo lavoro di tante Tebe dalle sette porte, “Mille Storie, mille memorie” intende dedicare “Domande di un lettore operaio”, una poesia che Bertolt Brecht scrisse nel 1935.

Domande di un lettore operaio

di Bertolt Brecht

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande
è piena d'archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l'India,
Da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la flotta
gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi,
oltre a lui, l'ha vinta?
Una vittoria ogni pagina,
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand'uomo.
Chi ne pagò le spese?
Quante vicende,
tante domande.

(traduzione di Franco Fortini)

© 2009 Francesco Capalbo

mercoledì 8 luglio 2009

Ricordando Giovanni de Giacomo



Bibliografia di riferimento:
Francesco Capalbo, Iustitiam Quaero. L'utopia pedagogica di Giovanni de Giacomo, Le Apuane n° 54, Novembre 2007
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© 2009 Francesco Capalbo

lunedì 6 luglio 2009

Il Monsignore con il sigaro



di Francesco Capalbo

Nel febbraio del 1937, don Giuseppe Cauteruccio lasciò il suo incarico di parroco di San Sosti “per raggiunti limiti di età”. Aveva 67 anni, essendo nato a Buonvicino, da Angelantonio Cauteruccio e da Mastriota Marianna, il 2 marzo del 1870. Si congedò dalla popolazione con una toccante cerimonia ed un commovente discorso, che tenne nello spiazzo antistante l’attuale sede dell’agenzia Carime.
Don Peppino fu un brillante oratore, ma anche un prete d’azione che diede nuovo impulso ai lavori di ammodernamento del Santuario del Pettoruto. Fu mandato a San Sosti sul finire dell’ottocento, in un momento di particolare tensione tra i notabili locali che amministravano il Comune e la Chiesa: l’oggetto della contesa, manco a dirlo, erano le offerte del Santuario. Finì in seguito per sostenere insieme agli altri due preti di San Sosti, don Luigi e don Ciccio Malfona, il fascismo locale. Gestì comunque il Santuario del Pettoruto con rigore ed onestà. Sempre in compagnia dell’immancabile sigaro era possibile incontrarlo per le vie del paese avvolto in una nuvola di fumo; particolare questo che rendeva il personaggio leggendario, austero, autorevole e nello stesso tempo stravagante.
Morì a Buonvicino il 20 ottobre del 1940. Il corrispondente di Cronaca di Calabria, nel momento del suo commiato dalla cittadina del Pettoruto, lo immortalò in un efficace bozzetto che venne pubblicato sul quotidiano del 21 febbraio del 1937 e che noi riproponiamo di seguito. A don Peppino Cauteruccio successe don Francesco Amoroso, che rimase a San Sosti per oltre un cinquantennio.


Monsignor Cauteruccio fra noiCronaca di Calabria 21 febbraio 1937


Ha lasciato San Sosti, dopo 40 anni di vero apostolato di fede, Monsignor don Giuseppe Cauteruccio, figlio carissimo e prediletto di questa Buonvicino che di lui si onora e che egli tanto onora.
A San Sosti, egli, il lavoratore zelante, assiduo, fattivo della grande vigna del Signore, ha scritto una pagina di storia meravigliosa che il tempo, con le sue freddi ali, non potrà mai cancellare dai cuori dei figli amanti la Gran Santa del Pettoruto, che solo l’opera veramente sacerdotale di Monsignor Cauteruccio ha reso un monumento di fede e di amore cristiano. Un Santuario acquattato tra i monti, ove regina e madre Ella risiede, se è monte di grandezza e di vera gloria cristiana per tutti i figli e le anime belle di Calabria nostra, con nobile, sentito atto di fede, ma soprattutto con sincerità cristiana, diamo il merito a chi spetta.
E noi, per il lavoro indefesso, per l’opera altamente lodevole di questo apostolo di carità e di ogni bene che molti beneficiando e tutto sacrificando, vita ed averi, con larghi gusti di santo altruismo che non conosce limiti, toto corde, gridiamo: Viva Monsignor Cauteruccio, che ha profuso tutti i tesori inestimabili del suo cuore veramente nobile e generoso di sacerdote per la tutta pura del Pettoruto, per la quale vive, palpita, ama, prega e volentieri perdona.
Nella foto del 1924 don Peppino Cauteruccio è quello sulla destra. Nella stessa foto sono immortalati i bambini dell’asilo delle Suore Piccole Operaie dei Sacri Cuori di San Sosti e sono riconoscibili il vescovo dell’epoca Monsignor Salvatore Scanu, l’ingegnere Antonio Guaglianone ed in fondo il sacerdote don Ciccio Malfona.© 2009 Francesco Capalbo