domenica 25 novembre 2018

Il bandolo della matassa




di Francesco Capalbo
Agli organizzatori del convegno di giorno 24 novembre 2018, dal titolo: “San Sosti: un borgo da Ri… vivere,” va dato il merito di aver individuato una prospettiva di sviluppo qualitativo, in sintonia con lo spirito del luogo. Le seduzioni di un turismo fatto di luccichii e paillettes non incantano più nessuno. Fortunatamente ne sono affascinati solo pochi sprovveduti e un manipolo interessato di politici e lobbisti, che vaga per i nostri territori cercando di vendere un improbabile futuro fatto di hotel a cinque stelle e di campi da golf.
Negli interventi di ieri, in modo particolare in quello di Fabio Torchia e di Stefano Saetta, ho percepito la voglia di riabitare i nostri luoghi con sguardi nuovi, non per mitizzare o rimpiangere il passato ma per continuare a vivere e dare un nuovo valore al posto in cui si è nati e cresciuti.
Ascoltando Fabio e Stefano mi sono tornate in mente le parole di Vito Teti, a proposito della “restanza”. Rimanere in un borgo non può essere sinonimo di conservazione. Non ci è più concesso il tempo di rimanere per contare le case che nel frattempo si svuotano. Occorre valorizzare le cose belle che noi abbiamo e Dio solo sa quante e quali sono. Ma è necessario dare anche il loro giusto valore agli scarti, ai frammenti che albergano nei nostri borghi, a partire dalla memoria, dalla lingua, dai saperi, dai suoni, dai prodotti della terra e dell’artigianato che sono state rifiutati negli anni in cui si celebravano visioni quantitative di sviluppo.
Il processo è lungo. Dare propulsione alla vita di un borgo è un atto creativo che necessita di essere meditato, studiato e abbisogna anche di una “governance del recupero”.
Occorre a tal proposito abbandonare l’idea ingenua e romantica che le vicende umane (e quindi anche il recupero di un borgo) evolvano e si realizzino solo perché evocate di tanto in tanto con convegnistica veemenza. Non esiste nessuna lampada di Aladino che possa esserci di aiuto e nella realtà le cose accadono solo perché qualcuno si prodiga per farle succedere.
Assumersi e conoscere “il lato oscuro, le conseguenze di quello che non abbiamo saputo o potuto fare” è anch'essa attività propedeutica ad ogni ricostruzione.
Il passato (ma anche il presente!)  del “borgo” di San Sosti ci consiglia di sperimentare inedite ma sane forme di relazioni umane. Se non si percepisce   che i destini di tutti noi sono interdipendenti è come se provassimo l’insano piacere di ballare sull'orlo di un vulcano.
Giovanni De Giacomo notava più di un secolo fa che la storia delle comunità dell’Esaro “è una vecchia storia fatta di zuffe impudiche che di volta in volta si riacutizza”. Lo stesso etnologo invitava a prendere coscienza di questo lato oscuro del nostro carattere collettivo. Incitava (a quanto pare inascoltato!) i nostri nonni a sperimentare il fascino che emanano le persone quando cancellando odi profondi e ancestrali rancori, costruiscono il bene per loro stessi ma anche per gli altri.
Ecco il bandolo della matassa: i nostri borghi per sperimentare una nuova vita, necessitano prima di ogni altra cosa dell’azione di cittadini che siano innamorati del bene … comune. Gente di buona ed onesta volontà!