venerdì 20 agosto 2010

Discorso sulla terra dell'osso




di Franco Armino

Il paese è esposto a nord. E’ un paese di cattivo umore. Contadini costretti a zappare controvento. Due ore di cammino per arrivare a una “mezza cota” piena di pietre. Prima ancora era un esilio di pastori, dunque una terra di gente abituata a passare molto tempo in solitudine. Solitudine, malumore. Infine la scontentezza e la paura tipiche di questo tempo. Ai mali suoi il paese della cicuta ha aggiunto quello degli altri, quelli della piccola borghesia urbana traslocata qui dagli stipendi: gli insegnanti, gli impiegati al Comune o all’ospedale. Alla durezza, all’ostilità di sempre, all’attitudine a scoraggiare e a scoraggiarsi, si è aggiunta l’ipocrisia, la stitichezza emotiva. Vivere in un posto del genere significa consegnarsi alla infelicità. Poi si può solo decidere come sfruttarla. Sfruttarla per scrivere o per incentivare l’infelicità degli altri. Sfruttarla per circuire con un robusto anello di noi la propria infelicità in modo da non sentirla. A ciascuno il suo. L’insieme delle scelte o delle non scelte costruisce un luogo che è insieme secco e viscido, aspro e melmoso. Non ci sono spiriti tiepidi, accasati in una vita operosa e tranquilla. Tutti sembrano affaccendati, chi a costruire un fallimento già costruito, chi a salire una cima che non c’è. Infatti il paese è in alto, ma non ci sono montagne.
Il vento non muove solo l’aria, ma anche la terra. Il sottosuolo cammina, è fatto di argille sciolte, tegole informi che navigano in una cupa deriva geologica. Dunque, essere qui vuol dire essere in bilico, averla nel sangue l’idea di spaccarsi. Ecco il triangolo. La frana e il vento i due cateti. La miseria come ipotenusa mobile. Non più la miseria dei contadini, la fame fascista, non più il paese delle coppole e delle mantelle nere, ma la miseria spirituale di un popolo che non è più tale. Il nichilismo contemporaneo incrociato con la tragedia greca. L’autismo corale tagliato con l’accidia meridiana. Il pessimismo del Nord associato al vittimismo del Sud. Ecco la frontiera, il meticciato psichico e architettonico. Ogni casa esibisce un suo sgraziato stile, ogni anima una pena indefinita. C’è molto da studiare, molto da osservare e capire. Luogo d’avanguardia, luogo di capolavori dell’accidia, luoghi in cui la vita si sciupa nell’inerzia, nel passo millimetrato di chi non crede a niente. L’ebbrezza che ha lasciato il pianeta qui non si è mai vista. Al massimo si ride con cattiveria, si ride delle altrui disgrazie. Si parla dall’amaro, dal mal di fegato. Artrosi che storce anche gli umori verso una piega di perenne rancore. Nessuno è incolume e chiaro, nessuno è amato. Su questa base caratteriale è appoggiata un’economia postdemocristiana, un misto di pensioni, sporadici commerci, imprese senza slanci. L’emigrazione dei giovani dal Sud al Nord, l’emigrazione dei vecchi dalle panchine al cimitero. La vita non scorre, si aggroviglia in una stanchezza agitata, in una sequela di giornate deluse e deludenti. Una severa condizione di disagio glocale, prodotto dalla mestizia antica della civiltà contadina e dalla cialtroneria spirituale della modernità incivile. Non siamo nell’alienazione urbana e neppure in quella rurale. Una condizione in cui convivono il mondo di De Martino e quello di Augé. La terra dell’osso di Rossi Doria e la terra liquida di Bauman. Strani incroci di un luogo che non è più retrovia, ma laboratorio della nova epoca. Un’epoca allo stesso tempo sfinita e affaccendata. Un’umanità postuma e infantile. I vecchi diventano decrepiti e i giovani non diventano adulti. Le strade dell’agonia sono infinite, quelle della salute sono vicoli ciechi. Ci si ferma, ci si addormenta appena cala il tasso di dolore. E’ sempre la solita storia: la via se non è terribile ti sfugge.


Franco Arminio è nato e vive a Bisaccia nell’Irpinia d’Oriente. Il brano, per sua gentile concessione, pubblicato sul blog “Mille storie, mille memorie” è parte integrante del libro “Nevica e ho le prove”, Editori Laterza, 2009. Di lui Laterza ha pubblicato il volume di prosa “Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di Paesologia”, 2009. In quattro libri, dall’ottantacinque al novantasette, è racchiusa parte della sua vocazione di poeta; appena apparsa per le edizioni D’IF, la raccolta di versi “Poeta con famiglia”. Alla poesia e alla scrittura affianca l’attività di documentarista. Ha creato insieme a molti amici “Comunità Provvisoria”, un movimento che si occupa della tutela dei paesi e dei paesaggi.

martedì 10 agosto 2010

Come si cancella la memoria da un luogo




di Francesco Capalbo

Quanti (sopratutto amici d’altri paesi) mi chiedevano di essere accompagnati per i vicoli del centro storico di San Sosti, rimanevano sorpresi dalla conformazione urbanistica di una stradina che collega la “posta vecchia” alla “vena di Cruci”. Il selciato antichissimo e costruito con pietra locale, si era mantenuto in buono stato perché la viuzza non era percorribile in automobile.
Esso permetteva che si serbasse memoria visiva della originaria conformazione delle strade che solcano il centro storico di San Sosti.
Questa mattina una potente ruspa lo ha divelto straziandolo: le pietre antiche, come pezzi di puzzolenti carogne, sono state abbandonate in qualche anonima discarica.
Invano ho cercato il “Cartello di Cantiere” per farmi una idea su chi abbia commissionato l’ennesimo scempio della struttura urbanistica della nostra comunità e su chi l’abbia eseguito.
Come al solito la distruzione della memoria(in tutte le sue accezioni!) apparentemente non ha mandanti tuttavia sono facilmente intuibili le generalità di quanti, di generazione in generazione, lucrano su di essa.



© 2009 francescocapalbo.blogspot.com