martedì 28 novembre 2017

La Via dell’Ossidiana e lo sviluppo possibile



di Francesco Capalbo

Il convegno tenutosi il 24 novembre nella Sala Nuova della Provincia di Cosenza, dal titolo: “Da Sibari a Diamante, lungo le rotte della Magna Grecia”, fuoriesce dal novero degli incontri politici nei quali spesso si parla delle meraviglie che il futuro ci riserverà se voteremo per il tal partito e se riporremo fiducia nei suoi irrealistici programmi.
L’altra sera per opera dell’associazione “NeoMedi” si è discusso di “sviluppo dolce”, l’unico possibile i territori della Valle dell’Alto Esaro.
L’idea è piuttosto semplice e coinvolge una via che in maniera evocativa è stata ribattezzata “Via dell’Ossidiana”, in omaggio alla preziosa roccia vulcanica che lungo questo tratturo, nell’antichità compiva una tappa del suo viaggio da Lipari verso Atene.
Attraverso la semplice razionalizzazione dell’esistente, il tragitto potrebbe costituire una seducente meta turistica per quanti amano il cammino lento lungo mulattiere, tracciati e piste.  La via Francigena o il percorso di Santiago di Compostela dimostrano che esiste una domanda turistica di tale tipo.
Gli esploratori della lentezza costituiscono un microcosmo di viaggiatori esigenti: amano la natura, la buona tavola e la ricchezza immateriale dei luoghi.
La Via dell’Ossidiana in realtà si compone di molte vie: una è quella che da San Sosti conduce a Buonvicino lambendo i territori di Mottafollone, Sant’Agata d’Esaro e San Donato di Ninea. È ricca di paesaggi, corsi d’acqua, cascate, montagne e colline, grotte, monasteri e santuari, tradizioni gastronomiche e di ottimi vini, di vestigia del passato e … di storie millenarie; queste ultime hanno un grande impatto emotivo su quanti incedono con passo lento.
Lungo la “Via dell’Ossidiana” Mario Pomilio ambientò un capitolo del suo celebre romanzo “Il Quinto Evangelio” e Pietro Bellanova, medico curante di Filippo Tommaso Marinetti, scrisse “Picchiata nell’amore”, romanzo sintetico futurista.
Lungo l’ultimo tratto di questo percorso conosciuto anche come “Via del Sale”, mossero i loro passi etnologi come Vincenzo Spinelli e Giovanni de Giacomo.
Ai margini di questo lungo budello, che per essere reso percorribile non necessita di oltraggi cementizi, Vittorio Caravelli raccolse la rappresentazione carnevalesca dei “Dodici Mesi dell’Anno”, imbastendo un vivace dibattito sulla distinzione tra cultura “alta” e cultura “popolare”.
Ora, affinché questa ricchezza immateriale produca ricchezza materiale, è necessario che come la lana, antica risorsa di questi territori, sia cardata, raccolta in un gomitolo di iniziative e tessuta con sagacia.
Ad uno sparuto ma influente gruppo di politici, capitanato dal Presidente della Regione Oliverio, va riconosciuto il merito di aver sposato l’idea della “crescita dolce” delle nostre terre.
Il filo però ora bisogna intrecciarlo; è questa l’operazione più complicata perché necessita dell’intervento sinergico di risorse materiali e di persone, di enti ed associazioni al cui interno spesso si agita un indomito … campanilismo.   



© 2009 francescocapalbo.blogspot.com



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mercoledì 29 marzo 2017

Le mani del cardinale e il solecismo della contessa




di Francesco Capalbo 
Francesca Chaouqui ha il merito di aver offerto a noi, suoi concittadini,una nuova coordinata geografica.
Adesso, quando mi trovo lontano da casa, a chi mi chiede dove si trova San Sosti, basta precisare che è lo stesso paese della Chaouqui e non devo altre spiegazioni.
Per una sorta di solidarietà, che mai dovrebbe venir meno tra quanti hanno avuto la ventura di nascere sulle stesse zolle, ho letto il suo libro:“Nel nome di Pietro” edito da Sperling & Kupfer. L’architettura del testo è bene congegnata, ma i contenuti non aggiungono niente di nuovo alle vicende dell’umanità.
La storia della pulzella che vuole sanare l’incurabile, mi sembra un tema abusato: la Chiesa è da tempo una meretrice irredimibile, voluta forse così dalla stesso Padreterno per rammentarci  come l’irreprensibile non afferisca al mondo dei vivi.
Questa constatazione si è cristallizzata finanche in numerosi insegnamenti popolari che invitano le persone a seguire il magistero dei preti, ma non ad imitarne i costumi.
Alcune parti “periferiche” del saggio racchiudono invece le fattezze del racconto: sono quelle più interessanti.
Scrive la Chaouqui che una volta, nella Cappella di Santa Marta, si è trovata a pregare insieme al papa:“lui inginocchiato nel quarto banco e io per rispetto un banco indietro”. Snocciolare Avemarie col papa è una evenienza così rara, che avrebbe paralizzato chiunque, ma non la tenace calabrese. Dopo la seconda decina, racconta la saggista: “colta da un’ispirazione, tiro fuori il cellulare e cerco rapidamente su You Tube. Un momento dopo nel silenzio si diffonde il Pater noster cantato. Papa Francesco si volta con un mezzo sorriso. Ricambiandolo intono: Sanctificetur nomen tuum…”
C’è in questo avvenimento il gusto per l’iperbole che rappresenta il marchio della scrittrice verace, dal quale traspare, a mio avviso, come la Chaouqui possegga un indiscutibile talento da romanziera.
In altre parti del libro la giovane autrice ci offre squarci di fisiognomica ecclesiastica. Grazie a lei ora sappiamo che le mani rappresentano lo specchio di un carattere e che quelle di un cardinale di azione hanno dita lunghe e unghie poco curate.
La narrazione per alcuni versi, racchiude gli archetipi del racconto di formazione: la partenza dal paese in cui si è sentita sempre straniera, la mamma intenta a risolvere il fallimento del suo matrimonio, il padre ricaduto nell’alcolismo che vive per strada, la lotta con i Lestrigoni e i Ciclopi e, non ultimo, l’incontro con la contessa Pinto Olori del Poggio.
La patrizia è una donna con i capelli setosi che sottopone la sua allieva ad un faticoso training da lobbista, svelandole cose che ai comuni mortali sono precluse: il cotone non è un materiale nobile, lo stesso abito non s’indossa mai due volte, le scarpe devono essere fatte a mano e l’acquisto del proprio profumo ai grandi magazzini è un “solecismo”, una sgrammaticatura, poiché le persone di sangue blu hanno la loro personale essenza che arriva direttamente da Parigi.
E’ a casa della contessa che alla Chaouqui  viene svelata la summa della convivialità interessata: se devono sedersi intorno ad uno stesso tavolo un ministro, un ambasciatore, un cardinale e un capo di stato, è il cardinale a sedersi alla destra del padrone di casa e a essere servito per primo.
L’addestramento è particolarmente duro e Francesca spesso lo disattende . Non si può chiedere ad una calabrese, scottata dal solleone e sferzata dallo scirocco, di essere fredda, priva di palesi entusiasmi e senza fremiti di gentilezza. Non si può pretendere da una nata in un borgo soffocato da forme di religiosità barocche, di non gesticolare, di non ridere, di non piangere.
Confesso di aver trovato la figura della contessa più inquietante di quella del cardinale Pell. Avrei voluto che altri particolari fossero disvelati su questa nobildonna da Ancien Régime, priva di debolezze sia nella carne che nello spirito, ma la narrazione a tal proposito è divenuta reticente, come un doloroso coitus interruptus.
Meritava una dose maggiore di attenzione letteraria la figura di chi, introducendo l’ ambiziosa lobbista in un mondo di lupi, aveva forse avuto l’accortezza di avvisarla che “d’azzardo non si gioca in coppia e tantomeno in tre”.



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