mercoledì 23 dicembre 2009

Confine


di Francesco Capalbo
Nel dicembre del 1979 Alberto Cavallari, che due anni più tardi sarebbe divenuto direttore del Corriere della Sera, augurò ai suoi lettori Buon Natale raccontando tante storie di Natale; lui stesso le aveva lette con grande maestria sui volti della gente, nella cronaca, negli avvenimenti di quegli anni, nelle lotte sociali e prim’ancora nella sofferta storia di noi italiani.
Erano anni in cui le ideologie si confrontavano in maniera aspra e parole auree come destra e sinistra districavano tutta la loro idolatrica potenza. Nel loro nome si costruivano solchi, fossati e trincee che attraversavano le comunità piccole e grandi ed anche le stesse famiglie.
Alberto Cavallari non era solito farsi incantare da categorie che in Italia rappresentano ancora ai nostri giorni specchietti per allodole agitati, all’evenienza, da demagoghi in cerca di consenso. La frattura, la faglia sismica, il limen che lui descrisse in quel famoso articolo non divideva la destra dalla sinistra, ma l’orda dei furbi dal popolo dei fessi che insieme costituivano e costituiscono tutt’ora l’essenza antropologica della nostra nazione.
Il blog “Mille storie, mille memorie” non avendo in uso far gli auguri di Natale recitando convenevoli ritornelli, propone la lettura dell’articolo di Cavallari con l’intento di contribuire a render chiari sia gli aspetti reconditi del nostro carattere collettivo, sia la malcelata ipocrisia dei re che a Natale si “scambiano l'argento e la mirra avendo deciso che bisogna finirla con la megalomania d'un bambino che pretende anche lui la corona”.

Il Natale ''dei fessi e dei furbi''

di Alberto Cavallari

Ci sono tante storie di Natale. C'è quella della stazione di Milano, per esempio, dove si potevano vedere nei giorni scorsi decine di vecchi seduti sulle valige di fibra, con decine di bambini avvolti in scialli e coperte. Parevano le solite famiglie in arrivo dai luoghi d'emigrazione, in attesa del solito treno del sud, ma non era così. Bastava domandare: per scoprire che si trattava di nonni venuti dal sud, in attesa di treni diretti ancora più a nord, diciamo Svizzera, Germania, Francia, e che lo scopo del viaggio era di portare i figli dei loro figli a vedere i padri e le madri che lavorano a Lilla, Dùsseldorf, Zurigo, e che nemmeno rientrano a Natale. Così si vide partire un treno di nonni e di nonne, un treno di capelli bianchi, di rughe, di scialli neri, di spalle ricurve, e tutti erano carichi di bambini, valige, miseria, fatica, stanchezza, ma con una luce negli occhi. Era il Natale dei vecchi italiani che si mettono in viaggio per ricostruire lontano il presepe distrutto. C'è poi la storia raccontata nei giornali dei trenta quattromila messinesi che vivono in tuguri e baracche perché nessuno ha più ricostruito le case del terremoto del 1908, e così "terremotati si nasce": mentre altri italiani nel Belice, in Friuli, nella Val Nerina, ingrossano il numero di chi attende una casa, e vorrebbe rifare il villaggio travolto, riavere il presepe perduto. Ma i ministri dimenticano, le leggi aspettano, la "priorità"non funziona, la stella cometa non appare mai, il cronista descrive tuguri, topaie, canili, baracche, che si addensano nei pianori, nelle valli, sulle colline, diciamo pure il nuovo presepio che stiamo edificando. C'è poi la storia che raccontano le riviste illustrate: dei capitani d'azienda, dei baroni d'ufficio, dei mandarini sociali, che si scambiano regali favolosi, valigie di coccodrillo da sei milioni, orologi da due, bottiglie preziose da collezione, e poi partono per i caldi Caraibi, visto che del presepio interessa soltanto il finale, l'arrivo dei regali, il minuetto dei re che si scambiano l'argento e la mirra avendo deciso che bisogna finirla con la megalomania d'un bambino che pretende anche lui la corona. Ma siccome l'imitazione dei ricchi prevale sull'imitazione di Cristo, ecco milioni di non ricchi che sperperano, partono, regalano, distruggendo quel poco presepio che potrebbe sopravvivere. C'è poi la storia dei giovani: che non trovano lavoro, che non trovano casa, che trovano droga e corruzione, proprio mentre cominciano il viaggio verso Betlemme, magari con una donna al fianco, magari con un bambino da crescere. Ma non è facile trovare capanne, asini, buoi, pastori, contadini, in un paese che ha favorito lo svuotamento delle campagne, lanciato il mito dell'industrializzazione selvaggia, premiato l'uccisione dei vitelli, distrutto l'ambiente e la natura, combattuto la tradizione, travolto ogni equilibrio. Infatti, si sono trovati miliardi per tangenti e bustarelle, ma non s'è trovata una lira per far vivere meglio chi lavora nei campi, cura le piante, alleva vitelli e conigli. Così, mentre arriva la crisi scopriamo di non avere nemmeno la risorsa fondamentale che si chiama agricoltura: questo "presepe" economico che i tecnocrati dei salotti hanno giudicato superato. C'è poi la storia del "lavoro sommerso": del paese che sta in piedi perché la gente produce, traffica, lavora, in una zona d'ombra che sfugge ai censimenti di Erode. I soliti centurioni la scoprono, la denunciano, la discutono naturalmente tra una vacanza e l'altra alle Antille e nella loro nota ignoranza vorrebbero che fosse organizzata, orientata, fiscalizzata, fiatizzata o irizzata. Ma basterebbe fargli leggere la storia del capitalismo che Braudel ha finito da poco, lavorando vent'anni, per sapere che un'economia ha sempre somigliato a una casa a tre piani. Al primo piano ci sono "le strutture del quotidiano". Al secondo piano c'è "il gioco degli scambi". Al terzo piano c'è il capitalismo (privato o di stato). Quando al terzo piano si sbagliano le direttive, le cose si salvano al piano sottostante; e quando persino gli "scambi" del secondo piano s'inceppano, fortunatamente scatta la "cultura del materiale", fatta di uomini in cerca di nutrimento, soldi, tecniche, strumenti di lavoro. Perché meravigliarsi se, privi di un terzo piano funzionante, paralizzato persino il mercato, il mondo italiano sopravvive barricandosi al primo piano?Ma fermiamoci qui. Tutte le storie di Natale potrebbero confluire in una storia sola. Voglio dire nella famosa parabola "dei furbi e dei fessi" scritta da Prezzolini al tempo di Caporetto. Infatti, mentre incombeva la più grande tragedia del risorgimento nazionale, mentre tutto crollava e mentre tutti scappavano, Prezzolini ebbe il coraggio di lanciare una teoria e di formulare una previsione. L'Italia, disse, è un paese fondamentalmente costituito da furbi e da fessi. I furbi comandano, arricchiscono, sbagliano, perdono, mandano allo sbaraglio i fessi. I fessi combattono, lavorano, accettano, lottano, sono persino capaci di morire per la patria. Pertanto, siccome i furbi hanno prodotto Caporetto, e siccome resta sempre una immensa riserva di fessi, è facile prevedere che i fessi verranno mandati al fronte, che accetteranno ancora una volta di combattere, che si faranno uccidere, e che alla fine riusciranno a vincere. Né Prezzolini aveva torto. La sua teoria funzionò, e con essa la previsione. Passate poche settimane, cessò la Caporetto dei furbi. Puntualmente si verificò l'immancabile Vittorio Veneto dei fessi. Il lettore avrà già capito che tra tutte le storie del Natale '79 si deve scegliere l'ultima, che riassume le altre. Infatti, il teorema di Prezzolini è sempre valido, comprese le sue famose enunciazioni. L'Italia di cui Prezzolini parlava sessanta anni fa e rimasta la stessa. un paese dove "l'intelligente è un fesso anche lui"; dove "il furbo non usa mai parole chiare, e comanda non per la sua capacità ma per l'abilità di fingersi capace"; dove "i fessi hanno dei principi, i furbi soltanto dei fini"; dove "in generale il fesso è stupido, perché se non fosse stupido avrebbe cacciato via i furbi da parecchio tempo"; dove "ci sono i fessi intelligenti e colti che vorrebbero mandare via i furbi, ma non possono: primo, perché sono fessi; secondo, perché gli altri fessi sono stupidi e non li capiscono"; dove " per andare avanti ci sono soltanto due sistemi: il primo è leccare i furbi; il secondo - che riesce meglio - consiste nel far loro paura; infatti, non c'è furbo che non abbia qualche marachella da nascondere, e non c'è furbo che non preferisca il quieto vivere alla lotta, e l'associazione con altri briganti alla guerra contro questi ". Si potrebbe citare a lungo questa diagnosi, che resiste al tempo, alla moda, ai trasformismi. Ma il lettore ha capito e saprà continuare da solo, e aggiornare queste parole con volti e con fatti, con situazioni e vicende, che perpetuano - sessant'anni dopo - l'Italia di sessanta anni fa. Ciò che interessa, qui, è precisare che la generazione di Prezzolini sbagliò tutto: vedendo la soluzione nel fascismo, cioè nell'uso fatto dai furbi della disperazione che nasce nell'animo dei fessi quando si combattono tra di loro. Mentre dobbiamo chiederci, adesso, quale sia la via d'uscita per impedire ai furbi di portarci nuove Caporetto, e per impedire ai fessi di regalare ai furbi nuove Vittorio Veneto. Dopotutto, il meccanismo violenza - autoritarismo è sempre pronto a scattare facendo leva sulla stanchezza, sul terrorismo, sul timore del peggio; e impaurisce un "ordine" che viene proposto ai fessi attraverso" l'associazione dei furbi con altri briganti ".Che fare, allora, sessant'anni dopo? Che fare mentre il Natale 1979 riporta gli stessi problemi del Natale 1919? Che fare mentre il paese rivive la sua permanente tragedia dei furbi e dei fessi? Probabilmente, la risposta non è nel gioco degli schieramenti che si perpetua, nel sofisticato intrigo dei furbi che si consuma a Roma, nel bigliardo politico che si gioca usando vecchi tabù contro una classe lavoratrice sempre esclusa (per una ragione o per l'altra) dal governo del paese. Probabilmente è nel capire che non va solo chiesto ai " fessi " di combattere a Caporetto. Infatti, il prossimo Natale sarà forse troppo tardi. Potremmo scoprire che non si torna indietro lungo la strada intrapresa, in un'Italia dove il "sistema" sembra poggiare sui soliti "due sistemi" di Prezzolini. Primo, essere cortigiani dei furbi. Secondo (come gli scandali dimostrano), fargli soltanto paura per essere chiamati a dirigere e comandare in una associazione perpetua di finti fessi e di furbi veri che si strizzano l'occhio. Diciamo pure: in un succedersi di disfatte - vittorie e di vittorie - disfatte che impediscono al " paese reale " di nascere, cioè di avere finalmente il proprio Natale.
© Francesco Capalbo 2009

venerdì 11 dicembre 2009

I rossi dell' Immacolata









© Francesco Capalbo


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venerdì 4 dicembre 2009

U trividdru da Vijlia

di Francesco Capalbo

Anche quest’anno la sera della Vigilia dell’Immacolata il fuoco dei falò scalderà l’attesa per il rito secolare “du trividdru” (la spillatura) del vino nuovo. Ai tanti che, a San Sosti e nell’Alta Valle dell’Esaro, ancora si cimentano nella nobile arte di spremere da uve meticcie gocce di felicità policrome,il blog "Millestoriemillememorie” dedica “Sonetto al vino” di Jeorge Luis Borges.


SONETTO AL VINO

di JORGE LUIS BORGES[1]


In quale regno o secolo
e sotto quale tacita
congiunzione di astri,
in che giorno segreto
non segnato dal marmo,
nacque la fortunata
e singolare idea
di inventare l’allegria?
Con autunni dorati
fu inventata.
Ed il vino
fluisce rosso
lungo mille generazioni
come il fiume del tempo
e nell’arduo cammino
ci fa dono di musica,
di fuoco e di leoni.
Nella notte del giubilo
e nell’infausto giorno
esalta l’allegria
o attenua la paura,
e questo ditirambo nuovo
che oggi gli canto
lo intonarono un giorno
l’arabo e il persiano.
Vino, insegnami come vedere
la mia storia
quasi fosse già fatta
cenere di memoria.

[1] Buenos Aires, 1899 - 1986



© Francesco Capalbo


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lunedì 30 novembre 2009

La Grande Guerra del caporale Esco Silvestri


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Mario Saccà è uno studioso calabrese (di Catanzaro) di Storia della Prima Guerra Mondiale. Famosi sono i suoi studi sui fatti di Santa Maria La Longa ( Udine), località nella quale il 16 luglio 1917 vennero passati per le armi alcuni componenti della “Brigata Catanzaro”. Costituita il 1º marzo 1915 a Catanzaro Lido, tale Brigata era formata da due reggimenti, il 141° e il 142° in maggioranza formati da soldati calabresi. Logorata dai lunghissimi turni in trincea di prima linea, nei settori più contesi, essa venne impiegata come brigata d’assalto sul Carso dal luglio 1915 al settembre 1917. A Santa Maria la Longa dove la brigata era stata acquartierata a partire dal 25 giugno 1917 per un periodo di riposo, la notizia di un nuovo reimpiego nelle trincee della prima linea fece, pian piano montare quella che in poche ore sarebbe diventata una vera e propria rivolta. I fanti della Catanzaro protestarono e la protesta passò in rivolta. Alle ore 22.00 del 15 luglio 1917 iniziò il fuoco che durò tutta la notte. I caporioni di ogni reggimento assaltarono i militari dell’altro inducendo gli stessi ad ammutinarsi e ad unirsi a loro. Molti caddero morti sotto il fuoco dei rivoltosi, altri ne rimasero feriti. La rivolta durò tutta la notte. Per sedare la rivolta vennero impiegati una compagnia di Carabinieri, quattro mitragliatrici, due auto cannoni. La lotta durò tutta la notte e cessò all’alba. Sedata la ribellione, il comandante della Brigata ordinò la fucilazione di quattro fanti colti con le canne dei fucili ancora calde e la decimazione della compagnia. All'alba del 16 luglio dodici fanti più i quattro colti in flagranza, alla presenza di due compagnie, una per ciascun reggimento, vennero fucilati a ridosso del muro di cinta del cimitero di Santa Maria La Longa e posti in una fossa comune.
Il caporale calabrese Esco Silvestri muratore, soldato e poeta, descritto nell'articolo, inquadrato nel 142° R.F., fu testimone dei fatti e dedicò ad essi dei versi molto toccanti . Mario Saccà invita i lettori a fornire evetuali notizie utili affinchè del "biondo e silenzioso soldato" di cui narra anche lo scrittore Carlo Tumiati se ne possa ricostruire l'esatto profilo anagrafico.

© Francesco Capalbo

venerdì 27 novembre 2009

Una importante opera di Filosofia del Diritto a cura di Mario Sirimarco


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© Capalbo Francesco

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domenica 15 novembre 2009

Le illegalità nascoste



di Alberto Volpe

Il rischio implicito nella ripetitività degli atti e comportamenti è quello di vedersi svuotare dell’originario valore il senso per cui quegli atti e comportamenti trovano concrete esplicitazioni. Chiamansi anche manifestazioni, la cui partecipazione, più o meno popolare, avviene più per trascinamento che per convinta affermazione dei principi per i quali si scende in piazza.
E’ il rischio che si corre realmente a seguito dei tanti convegni, seminari, comizi e manifestazioni di piazza in nome della legalità.
Un caposaldo della democrazia, ma prima ancora della civiltà in uno stato di diritto, che si invoca e si vuol difendere quando essa stessa legalità è messa a rischio da gesti, isolati o con complicità più o meno occulte, quali la intimidazione, incendi dolosi di automezzi e strutture, opifici e servizi, essi stessi offerti o gestiti da enti pubblici o da soggetti appartenenti alla piccola, media o grande imprenditoria.
Ancora peggio se taluni atti di vera e propria criminalità lasciano esanime e riverso in auto o per strada una persona, incensurata o con precedenti, che sia. In questo caso la coscienza civile resta ancor più scossa, e manifestare a testimonianza della inaccettabilità di quel tipo di violenza diventa spontaneo e corale.
Voglio qui richiamare, invece, i tanti, innumerevoli e sottili comportamenti di non minore illegalità che il cittadino comune (quello che conta perché contribuente, e non solo nella imminenza elettoralistica) subisce quotidianamente proprio da chi il livello della legalità è tenuto istituzionalmente a tenere alto e a garantire.
Se si desse “voce” proprio a quanti, temporaneamente fuori o lontani da quel ruolo, sono nella quotidianità gente comune (badiamo, non gente qualunque, spregiativamente parlando) vittima della subdola e presunta arroganza del potere, allora sì che ci vergogneremmo di doverci vedere affiancati nella comune lotta alla criminalità, e per la legalità, da personaggi che quel tipo di “violenza” applica nell’espletamento delle proprie funzioni e ruolo di servizio per la gente.
Parliamo dei soggetti “deboli” perché ammalati e quindi degenti negli ospedali, dei “deboli” finanziariamente costretti a cedere la propria attività lavorativa agli strozzini, od anche a mettere tra le “voci” del loro bilancio lavorativo la “tangente per la sicurezza”; parliamo dei soggetti (quindi non solo ed esclusivamente il genere o mondo femminile) vittime di stolking da parte del docente universitario o titolare dello studio legale o notarile o impresa telematica.
Ma non riteniamo più “fortunati” (sarebbe meglio dire meno vittime) quanti si vedono negati i propri diritti dagli uffici amministrativi pubblici. Questo succede quando si tollerano (o non si dà seguito ad una ordinanza di demolizione per abuso) illegalità e pagano quanti, invece, avevano ottenuto regolare autorizzazione ad edificare. Salvo a doversela vedere di fatto negata per impraticabilità della originaria ufficiale deliberazione. Od ancora quando si chiudono gli sportelli atti a ricevere delle domande (di condono o di richiesta di alloggio popolare) , che altri ed altrimenti detti “furbetti” trovano modo per farsele protocollare dalla finestra, chiaramente con la complicità “ripagabile”.
In tutti questi casi, è giusto chiedersi, se ha senso tenere la torcia della legalità tra le mani, se queste devono essere sacrificate alla illegalità diffusa di inetti o complici amministratori od organi tecnici asserviti a quella risma di amministratori. Così si giustifica il baso livello di fiducia nella politica. Così si mina il valore delle regole dell’ordinato vivere sociale e democratico. Ma per fortuna ci sono quei cosidetti “cani da guardia”, Corte Costituzionale di ogni Stato, e Corte Costituzionale Europea che sono preposte a prevenire un “usum delphini” del potere, in nome di un errato od improprio concetto del potere democratico delegato.


alvolpe@libero.it

Alberto Volpe è nato a Roggiano Gravina. E' autore della pubblicazione "Comunicazione di massa e processo di socializzazione". Corrispondente abituale della Gazzetta del Sud per la realtà territoriale della Valle dell'Esaro e di Roggiano Gravina in particolare, e dal marzo 2001 collaboratore de "Il Quotidiano della Calabria". Come "notista" ha collaborato con testate prestigiose tra le quali Avvenire.


L’immagine riproduce un depliant dell'Associazione Contro Tutte le Mafie che radicata nel grande Salento, ma operante in tutta Italia, ha pubblicato un saggio d’inchiesta sconvolgente di pubblico interesse nazionale. Esso è il “libro bianco delle illegalità sottaciute”.




© Capalbo Francesco

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mercoledì 14 ottobre 2009

Memoria e Futuro


Di Grazia La Cava

Il secolo scorso è stato testimone di grandi avvenimenti: la prima guerra mondiale, il ventennio fascista, la seconda guerra mondiale.
La formazione e l’educazione di quelli della mia generazione, pur non avendo assistito in maniera diretta a quei tragici eventi, non ha potuto non subirne l’influenza.
I nostri nonni e i nostri padri, attraverso le loro dirette testimonianze ci hanno, in qualche modo, resi partecipi di grandi sofferenze ma anche di grandi passioni civili e di quotidiane lotte per la sopravvivenza. I loro racconti hanno trasferito su noi stessi le loro esperienze investendoci inconsapevolmente della grande responsabilità di essere depositari di grandi valori di umanità e solidarietà che, inevitabilmente, si acquisiscono e si rafforzano in coincidenza di fatti tragici. In tal modo ci hanno consegnato in eredità un grande patrimonio da conservare e tramandare.
Ho visto il bellissimo film di Tornatore Baarìa dopo aver riletto (casualmente) “I fatti di Casignana” di Mario La Cava: storie di lotte contadine in Sicilia ed in Calabria, storie di gente semplice e povera che ha vissuto dal sud i grandi avvenimenti di quel secolo, lontano, quindi, dalla attiva partecipazione alle grandi lotte civili come la lotta al fascismo e la guerra partigiana. Eppure quelle genti, pur nella sofferenza e nella povertà (anzi, proprio perché nella sofferenza e nella povertà) hanno saputo uscirne con grande dignità - pur se talvolta sconfitti come avvenne a Casignana – dimostrando di volersi e sapersi ribellare alle ingiustizie ed alla sopraffazione, sacrificando talvolta anche vite umane. Eroi sconosciuti che Tornatore ha voluto ricordare nel suo film e La Cava nel suo romanzo.
A quasi 10 anni dall’inizio del nuovo secolo si ha come l’impressione che ci si dimentichi sempre più di ciò che è stato, ed è come se con l’ingresso nel nuovo millennio si sia voluto ripartire con slancio verso altri riferimenti, idee ed esempi da seguire con risultati quantomeno discutibili.
Probabilmente non abbiamo saputo sfruttare i racconti dei nostri cari per costruire dalle macerie e dalla povertà una Calabria migliore. Probabilmente non abbiamo saputo “passare” nel giusto modo ai nostri figli l’eredità ricevuta pensando così di render loro la vita più semplice, senza “disturbarli” con storie ormai lontane.
La Calabria del dopoguerra ha sempre subìto soprusi, inganni, mafia, malaffare. Ora, però, credo stia attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia, con un territorio sempre più degradato, la ‘ndrangheta che si conferma la più potente organizzazione criminale del mondo, i veleni sparsi nei nostri mari e sui nostri monti con una politica regionale senza idee né progetti, la politica nazionale che guarda al sud solo per costruire ponti tra le rovine.
Scriveva Indro Montanelli dei calabresi negli anni ’50: “[…] Bisogna ribellarsi e porre riparo […] Noi non vogliamo ch’essi si rassegnino alla malasorte.”
Fin dove bisogna arrivare affinché i calabresi abbiano la forza ed il coraggio di ribellarsi? Ce l’abbiamo ancora la forza ed il coraggio? Sapremo uscirne con dignità come fecero i nostri padri? Oppure siamo capaci di reagire solo quando qualche decadente cantautore dice qualche cretinata?
La memoria forse ci potrà aiutare.

Bovalino 11 Ottobre 2009




© 2009 Francesco Capalbo

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domenica 13 settembre 2009

Il degrado delle feste

Una giornata come tante altre

Nota introduttiva di Francesco Capalbo

L’articolo che segue, ci rimanda ad un altro 8 settembre: quello del 1999. Solo quarant’anni separano questa data dal momento in cui Gennaro Capalbo parlò del Pettoruto come di un caleidoscopio di vita e di suoni, ribattezzandolo “la Piedigrotta di Calabria”. Piedigrotta è infatti una zona di Napoli, situata nel quartiere Chiaia, a cavallo tra via Caracciolo e la stazione ferroviaria di Mergellina, nella quale dal XII secolo venne celebrata una festa in onore della Madonna. La festa partenopea visse il suo massimo splendore tra la fine del 1880 e la seconda metà del 1900, quando divenne vetrina della musica napoletana perché si svolgeva in concomitanza con il Festival della canzone napoletana.
Dal momento in cui scrive Gennaro Capalbo al 1999, molta acqua è passata sotto i ponti e l’occhio esperto di Angelo Maggio, che di professione fa il fotografo, con l’animo e le competenze da etnologo, coglie alcuni dei mutamenti che la festa del Pettoruto ha subito. Con acume il suo obbiettivo rivela come le feste tradizionali siano una cartina di tornasole e si modifichino proprio così come si modifica il gruppo che vi partecipa.
Per l’autore dell’articolo nel caso del Santuario del Pettoruto è anche rilevabile come queste trasformazioni svelino processi di omologazione tendenti a tramutare “un luogo del Sacro” in un “non luogo”, vetrina di merci confuse, come la foto documenta, dominato da un asettico silenzio. E’ come se un’accurata regia avesse inteso o intendesse rimuovere da queste forme di devozione con alterne fortune, (poiché la vera anima di un popolo o di un gruppo sociale ha infinite possibilità di rigenerarsi), suoni e comportamenti ancestrali ritenuti segni di un folclore primitivo o peggio ancora molesto.


Il degrado delle feste

di Angelo Maggio


La sveglia suona alle ore 4.00. Supero facilmente l'intontimento dell'orario e preparo le macchine fotografiche. Due di esse ancora contengono un rullino cominciato alla festa della Madonna di Polsi. Oggi è infatti l'8 settembre e le altre foto risalgono a circa una settimana fa. Subito la mente ripercorre quei momenti, dall'arrivo al santuario giorno 1 pomeriggio accompagnato dal suono dell'organetto di due bassi e del tamburello, alla veglia in chiesa, alle tarantelle danzate davanti al sagrato della chiesa, all'odore della carne di capra arrostita, agli sguardi concentrati dei giocatori di morra, alla processione della Madonna, al calore della famiglia Battaglia di Cardeto che ormai mi ha adottato, alle parole di Monsignor Bregantini. Questo film mi passa velocemente davanti gli occhi e aumenta la voglia di arrivare il più presto possibile al Santuario del Pettoruto a San Sosti dove oggi, come ogni anno, si svolge la festa in onore della Madonna del Pettoruto.Due paesi distanti parecchi chilometri l'uno dall'altro ma accomunati dalla festa in onore di Maria e dalla musica tradizionale. Se al santuario di Polsi, infatti, si svolge la festa che raccoglie il maggior numero di suonatori tradizionali della provincia di Reggio Calabria, San Sosti, insieme al Santuario della Madonna del Pollino che però si trova nel comune di San Severino Lucano e quindi in Basilicata, raccoglie fedeli e suonatori tradizionali da diversi comuni della provincia cosentina. Nei giorni scorsi ho telefonato a qualcuno di quelli che spero di vedere al Pettoruto. So già che non incontrerò Santino Bufanio, grande suonatore e costruttore di surduline - la precisazione del tipo di zampogna è necessaria perché in Calabria ne esistono diversi tipi, che qualcuno chiama cornamuse per darle un nome che si ritiene più nordico e quindi più nobile. Mi ha assicurato che ci sarà invece Angelo Minervini, anche lui un maestro della surdulina: per lui quello di San Sosti è un appuntamento che non può mancare. Arrivo al santuario alle 7 circa. Strano, gli anni passati non sono mai riuscito a parcheggiare la macchina così vicino alla chiesa, forse perché oggi non è domenica. Avvicinandomi avverto però una strana senzazione, la cosa che salta subito agli occhi, o meglio alle orecchie, è l'assoluta assenza della musica. Arrivato sul sagrato antistante la chiesa il fatto è ancora più strano, i suonatori ci sono, ma gli organetti ed i tamburelli sono fermi. L'atmosfera è calma, stagnante, non mi piace, divento insofferente e decido di scendere giù per andare incontro ai pellegrini che da San Sosti giungono al Santuario a piedi. Dopo qualche centinaio di metri in lontananza sento il suono di una zampogna. Meno male, il mio stato d'animo migliora. Affretto il passo e vedo Angelo Minervini che insieme alla moglie sta salendo al santuario suonando la sua surdulina. Mi abbraccia, sono felice di vederlo. Saliamo insieme verso la chiesa, lui suonando, io facendo foto e ascoltando, ma arrivati al Santuario resto deluso, appena qualcuno inizia a suonare sul sagrato, dei giovani gli dicono di smettere perché disturba. La situazione è paradossale: giovani di circa 20 anni intimano a suonatori dell'età dei loro nonni di non fare chiasso! Di solito ho sempre visto accadere il contrario, erano gli anziani a lamentarsi del chiasso dei ragazzi. Forse però mi sbaglio, questi guardiani della quiete e del silenzio sono giovani solo all'apparenza, probabilmente i loro occhi abilmente celati da occhiali da sole molto scuri nascondono una grande stanchezza, ed i loro corpi coperti da divise tutte uguali vogliono che quella musica smetta perché non ce la fanno a ballare e questo provoca loro disagio, vorrebbero farlo ma non possono, hanno perso quella carica vitale che invece quei ragazzini di 60 anni hanno ancora intatta. Appena qualcuno inizia a suonare subito due o tre di loro si avvicinano chiedendogli di smettere, quasi la musica offendesse le insegne del Giubileo del 2000. Gli attimi che precedono l'uscita della statua della Madonna sono poi frenetici ma non per i fedeli, ma per i giovani-anziani-con-gli-occhiali-da-sole. Quest'ultimi, attentissimi a far spostare le persone davanti la statua, mi appaiono come una via di mezzo tra delle guardie del corpo e dei chierichetti. Dei primi hanno i modi e la voce, dei secondi lo sguardo dolce da bravi ragazzi che traspare quando si tolgono gli occhiali. I suonatori non accompagneranno la statua durante la processione come solitamente facevano, solo un suonatore di organetto lo fa, e rimarrà l'unico per tutta la processione. Questo accadeva nell'anno 1999, anno in cui la Calabria ed i calabresi stavano approntando tutto per ricevere le migliaia di turisti che sarebbero dovuti giungere per il Giubileo. Si doveva dare un nuovo volto alle feste, via quindi questi suonatori tradizionali dalle processioni, "chi conosce il canto in italiano canti, chi lo conosce in dialetto taccia" aveva detto l'anno prima il sacerdote durante la processione al santuario della Madonna delle Armi a Cerchiara, via le tarantelle sui sagrati. In compenso un fiorire di fasce tricolori e di stendardi di Amministrazioni comunali (fortunatamente non presenti a Polsi malgrado la grande simpatia del sindaco di San Luca e di don Pino Strangio), di palloncini tricolori, di balletti in chiesa e di inviati tv all'inseguimento della nonnina e del nonnino che non avesse mai avuto il piacere di incontrare un dentista. Il volto nuovo alle feste è stato dato, ma una profonda cicatrice ne ha sfregiato alcune, e la mano che l'ha fatto impugna ancora la lama pronta a colpire nuovamente. Aiutata da sorella morte, che negli ultimi anni ci sta privando di numerosi alberi di canto della musica tradizionale calabrese, questa mano subdolamente si infila nelle feste, incomincia ad apportarvi piccole variazioni, ad esempio plagia giovani implumi, nipoti di anziani del posto, perché suonino durante la messa con la chitarra e con la tastiera elettronica rendendo quindi impossibile ai loro nonni di cantare i loro canti sacri. Ne stravolge le modalità di svolgimento se non addirittura le mutila, asportando parti ritenute dannose. E' quanto è successo quest'anno durante la festa della Madonna del Pollino. Qui vi era l'uso che all'uscita della statua dalla chiesa questa si fermasse, un banditore poi dava inizio ad un'asta a cui partecipavano gruppi di diversi paesi. Chi offriva più soldi aveva il diritto di portare sulle spalle la statua durante la processione. Quest'anno è accaduto che quando tutti erano pronti per cominciare l'incanto dall'altoparlante il sacerdote ha annunciato che questo non si sarebbe svolto, ma che le offerte sarebbero lo stesso state raccolte. Ho visto negli occhi di quella gente una rabbia mista ad un profondo dispiacere, gli era stato negato qualcosa che era stato dei loro padri. Sempre durante questa festa, delle donne hanno ballato di nascosto in chiesa perche un altro difensore del silenzio non voleva. Ma ci rendiamo conto di ciò che stiamo consentendo che accada o no? La festa tradizionale è una cartina di tornasole, essa si modifica naturalmente come si modifica il gruppo che vi partecipa. Se una volta si benedivano i buoi, oggi si benedicono i trattori e le automobili. Le statue dei santi non vanno solo nei campi, ma vanno nelle officine, nei laboratori a benedire i luoghi in cui oggi si lavora. E a suonare la zampogna non sono solo pastori, ma ragazzi che studiano all'università e che hanno riscoperto quel legame con un mondo che è stato cancellato nell'animo dei loro genitori. Lungi da me l'idea di una festa schematizzata alla perfezione, di danze tradizionali eseguite da giovincelle in costume finto-tradizionale che agitano tamburelli come fossero racchette da tennis, per carità! Probabilmente anche negli anni passati alcuni nostri riti erano osteggiati dai potenti, ma l'esistenza di un substrato culturale in cui il rito affondava le sua radici faceva sì che questo si mantenesse. Le occasioni in cui si suonava e si danzava erano numerose, "Na vota nun c'era a televisione" è la frase che più spesso sento ripetere dai suonatori tradizionali che così giustificano il loro estinguersi. Sono diminuite le occasioni di lavoro in cui il gruppo si ritrovava, ma non per questo è morta la musica tradizionale. La stessa cosa succede per le feste tradizionali. I giovani di Alessandria del Carretto certamente vivono il rito del trasporto dell'abete dalla montagna al paese in modo diverso da come lo vivevano i loro nonni che avevano un rapporto diverso con quei monti, che gli davano da vivere ma che contemporaneamente li isolavano dal resto del mondo. Ma il rito si svolge e malgrado ad un occhio disattento sembri uguale, ogni anno subisce piccole modifiche che a volte non vengono nemmeno rilevate dai partecipanti. Il valore propiziatorio per l'agricoltura che il rito forse, aveva, oggi è scomparso. Chi partecipa al trasporto ed all'alzo dell'abete o "ntinna", come è detto dagli alessandrini l'albero, riassapora il piacere di lavorare e divertirsi, e tanto, insieme a persone del suo gruppo, e di gioire insieme dei risultati raggiunti. Oggi si stà verificando un fatto inverosimile, il centro-nord d'Italia è pieno di giovani interessati alle musiche ed alla danza del meridione d'Italia. Migliaia di giovani ballano ai concerti di musica proveniente dal Sud Italia, e noi, invece di tutelare questo patrimonio culturale, lo uccidiamo e ci compiaciamo dello svolgimento di manifestazioni che scimmiottano quelle che si svolgono in Toscana ed in Umbria, che altro non fanno che aumentare la nostra ignoranza e diminuire l'amore non solo verso la nostra terra, ma verso tutte le culture sottomesse dalla cultura egemone. Questo atteggiamento fa sì che l'accostamento alla cultura tradizionale avvenga con leggerezza, che ci si dimeni in maniera spesso scomposta, senza comprendere le regole che governano l'entratra e l'uscita dalla danza, e se qualcuno, quando capitano a qualche festa, li richiama all'ordine, lo vedono come uno che vuole limitare il loro animo artistico. Ma quale animo artistico, movimenti disarmonici fatti passare per passi di danza? Farebbero lo stesso con un tango? Penso proprio di no. Fortunatamente la situazione non è irreparabile, le feste e la musica tradizionale sono ancora fortemente presenti in Calabria anche se disseminate a macchia di leopardo. Numerosi sono i sindaci ed i sacerdoti che, coscienti dell'importanza di questi momenti in una comunità, ne favoriscono non solo il mantenimento, ho detto mantenimento e non congelamento, ma anche quelle iniziative culturali che ridanno dignità a quelle tradizioni che TV e mass-media hanno messo in secondo piano o ridicolizzati - Totò nel film "Totò d'Arabia" per offendere un uomo lo chiama - dispiace dirlo - "zampognaro".Mai come in questi casi è vero il detto "la fortuna aiuta gli audaci". Le amministrazioni comunali che hanno ospitato manifestazioni il cui asse portante era costituito dalla musica tradizionale hanno avuto una fortissima presenza di pubblico, ma non di quello presente alle sagre dove si vedono persone riempire vassoi che sfamerebbero Pantagruel (tanto tutto è gratis), ma di un pubblico più attento, rispettoso del paese e dei suoi abitanti, che spesso ha seguito corsi di danza tradizionale in diversi posti d'Italia ed approda in Calabria per vivere una festa (e che una volta tornato nelle nebbie della Padania non fa altro che parlare di quella spendida musica che aveva sentito e che era profondamente diversa dal valzer che è l'inno della regione conosciuto con il titolo di "Calabrisella mia"). Io credo che una legge regionale che tuteli le feste tradizionali sarebbe auspicabile, qualcosa di simile al progetto proposto dal prof. Francesco Lucarelli e dal prof. Lello Mazzacane nella pubblicazione edita da Extra Moenia Nola. In tale proposta la festa viene considerata come un bene culturale da tutelare al pari di tutte "le cose, immobili o mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico".

Angelo Maggio vive e lavora a Catanzaro. si occupa di fotografia etnografica dal 1996. E' uno dei fondatori dell'A.R.P.A.(Associazione di Ricerca, Produzione ed Animazione del territorio)
L’articolo dal titolo: “Il degrado delle feste” è stato pubblicato sul numero 24 di Ora Locale, marzo-aprile 2001.
La foto, scattata da Angelo Maggio al Santuario del Pettoruto, è qui pubblicata per sua gentile concessione.

© 2009 Francesco Capalbo

giovedì 6 agosto 2009

Un instant book, che sarà presentato a San Sosti giorno 8 agosto, indaga l’avventurosa ed enigmatica vicenda della scure di Kyniskos


di “Mille storie, mille memorie”

Molti dei reperti archeologici esposti nei musei di tutto il mondo nascondono storie non chiare di alienazioni o ancora peggio di trafugamenti e di riapparizioni improvvise nei più grandi spazi espositivi del pianeta.
In questi ultimi giorni ad esempio, l’attenzione della stampa mondiale si è posata sul nuovo Museo dell’Acropoli di Atene, inaugurato nel mese di giugno, che rivendica alcune sculture che sono esposte al British Museum di Londra. Sempre nello stesso periodo, l’Egitto ha nuovamente rivendicato il busto della regina Nefertiti, oggi all’Altes Museum di Berlino, ritrovato nel 1912 ad Amama. Per non dire dell’Atleta di Fano, il bronzo di Lisippo, rinvenuto nel 1964 che, passato per il mercato nero, è stato poi acquistato dal Getty di Los Angeles, che detiene anche la Venere di Morgantina, trafugata da un sito archeologico in provincia di Enna.
Stessa sembra la sorte toccata anche ad un prezioso reperto archeologico, trovato in provincia di Cosenza nel 1846 e conosciuto come l’ascia di Kyniskos.
Il pezzo, con iscrizione votiva del VI secolo a.C., è attualmente conservato al British Museum di Londra presso il Dipartimento delle Antichità Greche e Romane. Fonti letterarie documentano come l’antico manufatto sia stato serbato in San Sosti almeno fino al 1857. Da quell’anno in poi di esso si persero le tracce e solo nel 1884 ricomparve …nelle sale del museo londinese.
Esposta in Italia nel 1996 nella mostra “I Greci in Occidente” tenutasi nel Palazzo Grassi di Venezia, la scure è annoverata tra “quelle opere in grado di parlare da sole senza bisogno di illustrazioni, tanto è la carica emozionale che esse posseggono”.
Sull’onda emotiva che precedette e seguì la esposizione veneziana del 1996, l’Amministrazione Comunale di San Sosti orchestrò una vivace polemica mediatica per rivendicarne il possesso, pur rimanendo sconosciute le vicende che portarono il reperto tra le collezioni del museo londinese.
Ora un instant book di Francesco Capalbo ricostruisce alcune tappe inedite di questa appassionante vicenda: la storia del ritrovamento del reperto, l’illustrazione dello stesso sui famosi periodici dell’epoca, il profilo “professionale”dei personaggi che ebbero modo di osservarlo o di averlo tra le mani, le concitate fasi dell’asta nella quale venne venduto ad un potente emissario del British Museum.
Il testo, dal titolo: “Della raminga scure” indaga anche sulla veridicità della tesi secondo la quale del reperto si siano perse le tracce proprio dopo essere stato inviato nel 1857 a Napoli, per ragioni di analisi e studio, presso il Museo Nazionale.
Un apposito spazio è stato inoltre dedicato allo studio del contesto umano e sociale del territorio nel quale l’ascia fu custodita dopo il ritrovamento e si avanza un’ipotesi convincente su come essa “abbia preso il volo” da San Sosti.
L’attività di ricerca si è avvalsa della collaborazione di molte persone che hanno permesso di rimuovere il crespo di dimenticanza che sulla vicenda si era posato con il passare degli anni; ad esempio documenti importanti per ricostruire le fasi della vendita del reperto, sono stati forniti da funzionari del British Museum.
Il libro sarà presentato sabato 8 agosto alle ore 19,00 nella Biblioteca del Museo San Sozonte di San Sosti, nel corso delle manifestazioni culturali riguardanti l’Estate Sansostese.
Dopo i saluti del sindaco Michele Sirimarco, seguiranno gli interventi di: Carmen Bosco, Mariangela Bruno e Raffaele Rosignuolo, nonché le conclusioni dell’autore.


© Francesco Capalbo

giovedì 30 luglio 2009

Antico rimedio sansostese contro il mal di scirocco



di Francesco Capalbo


Quando l’intensa calura estiva rende l’aria irrespirabile, è possibile trarre sensazioni di sollievo anche… da due foto come quelle da noi proposte. Tratte dal libro “Il Pettoruto” di Giuseppe e di Francesco Marasco, esse ritraggono una la vecchia strada per fra Giuvanni, percorsa da ragazze che andavano a riempire i vummuli (gli orcioli) e da donne che portavano il grano al vecchio mulino e l’altra la fontana e il mulino.
Per noi sansostesi fra Giuvanni rappresenta da sempre una sorta di “rifugio dallo scirocco”, un luogo dove ricercare occasioni di tregua, specialmente nei momenti in cui spira il vento caldo da sud- est che infiamma, solo per pochi giorni, le nostre miti latitudini.
Lo scirocco, in altri posti chiamato ghibli, era ritenuto in passato responsabile di produrre effetti negativi sulla salute psichica degli individui per via dell’umidità e della polvere del deserto che esso porta con sé. Non è un caso che tra le espressioni ormai poco usate del nostro dialetto, sia presente la locuzione “cima di scirocco” utilizzata per definire l’apice di atteggiamenti sanguigni, bizzarri e iracondi.
A noi piace pensare che il nome di fra Giuvanni sia stato attribuito al posto ritratto nelle foto, non solo per la vicinanza al monastero di San Sozonte, quanto per gli influssi benefici che esso esercita sulle sciroccate pulsioni.
Portata a termine la distensiva passeggiata, necessaria per raggiungere dall’abitato di San Sosti il luogo del refrigerio, le umane tensioni sembrano placarsi e dopo un sorso d’acqua fresca le “cime di scirocco” si riducono a semplice scintille che nonostante crepitino con ardore, hanno effimera durata.

© 2009 Francesco Capalbo

martedì 28 luglio 2009

Sabato 8 agosto a San Sosti

"In compagnia di altri oggetti raminghi, la scure di Kyniskos è diventata, col tempo e suo malgrado, simbolo di una ricchezza culturale passata. Di essa noi meridionali ci ricordiamo solo in occasione di patetiche cerimonie, con le quali tentiamo di scuotere la nostra cattiva coscienza, mentre in realtà continuiamo ad annaspare nelle nebbie di un irreversibile torpore."

© 2009 Francesco Capalbo

sabato 25 luglio 2009

Questione di sopravvivenza

di Grazia La Cava

Non esiste biografia, recensione o articolo su Mario La Cava che non ponga l’accento sul fatto che lo Scrittore sia sempre vissuto nella sua Calabria rimanendone fedele fino alla sua morte avvenuta appunto a Bovalino più di 20 anni fa. Lo stesso accade per Fortunato Seminara che quasi sempre viene associato a La Cava per questa comune “anomalia”.
Probabilmente né La Cava né Seminara avrebbero scritto le stesse pagine se fossero emigrati lasciando la loro piccola provincia. Forse i “Caratteri” non sarebbero mai stati partoriti per scarsità di soggetti ispiratori, così come “I racconti di Bovalino”. E Seminara non avrebbe sicuramente scritto “Il mio paese del Sud”.
Ciò che emerge costantemente nei giudizi è considerare “anomalo” il fatto che uomini di cultura (in questo caso) possano aver operato in Calabria riscuotendo, nonostante ciò, discreto successo e grandi apprezzamenti, come se questo fosse un valore aggiunto per il fatto di aver superato prove solitamente non superabili. Si badi bene che questo comune sentire riguarda esclusivamente la Calabria, senza coinvolgere l’intero meridione, come solitamente succede per altri fatti. Ciò non accade, ad esempio, con gli scrittori campani, pugliesi o siciliani.
Ovvia conclusione, quindi, che oggettivamente vivere in Calabria rappresenta un ostacolo per la realizzazione di qualsiasi espressione che abbia a che fare con l’arte e la cultura più in generale, tranne isolate eccezioni, come La Cava e Seminara appunto, che proprio per questo vengono evidenziate ed esaltate.
C’è da chiedersi, a questo punto, se ciò vale solo per le espressioni culturali oppure se esistono oggettive difficoltà in Calabria per la realizzazione di qualsiasi iniziativa o, più semplicemente, per il vivere quotidiano.
L’aspra montagna, le ampie spiagge dello Jonio, le rocce sul Tirreno: la natura ha saputo modellare ad arte questa nostra terra esaltandone i forti contrasti. La gente di Calabria ha saputo adattarsi ed integrarsi all’ambiente e, allo stesso modo, ne evidenzia i contrasti facendo spiccare da un lato l’ingegno di grandi figure nelle arti, nelle scienze, nella cultura e, dall’altro la ‘ndrangheta, le collusioni tra politica e malaffare, l’incapacità, l’oblìo che hanno prodotto nella nostra regione – nel corso di secoli - abbandono, degrado, violenza, ignoranza, arroganza.
Si può obiettare che ciò accade in tutto il mezzogiorno. Giusto. La diversità sta nel fatto che in Calabria in mezzo ci sta il nulla, non esistono mezze misure. O meglio, chi sta in mezzo (la gente onesta, i lavoratori, la maggioranza, cioè dei calabresi) non può (e spesso non vuole) esprimere al meglio le proprie potenzialità nel lavoro, nella creatività, nella quotidianità: realizzare qualsiasi piccolo o grande progetto, valorizzare le proprie capacità diventa in Calabria un esercizio molto più difficile che altrove, un compito quasi proibitivo.
Eppure non mancano negli ultimi tempi apprezzabili espressioni culturali e artistiche che cercano di rimuovere questa secolare immobilità e che fanno ben sperare: manifestazioni di grande spessore artistico, la riscoperta di musica e tradizioni popolari, iniziative culturali.
Finora solo lontano dalla Calabria le capacità, la creatività e l’ingegno dei calabresi si sono potuti esprimere al meglio. Sarebbe ora di cominciare a farlo qui. E’ l’unico modo per sottomettere e respingere l’arretratezza, la violenza e l’arroganza. La speranza è di non trovare ostacoli com’è stato finora. Abbiamo la forza, la voglia e la testardaggine. Ormai è una questione di sopravvivenza.


Bovalino, 25 Luglio 2009


Nella foto: Mario La Cava e Fortunato Seminara



© 2009 Francesco Capalbo


Yes we can!

venerdì 17 luglio 2009

Per gli anonimi costruttori di “Tebe dalle sette porte”



di Francesco Capalbo

La foto, dei primi anni venti, ritrae un gruppo di persone in posa davanti all’obiettivo del fotografo.
Il luogo dell’immagine è la piazzetta di San Sosti (ora piazza della Libertà).
Per le persone che in essa compaiono, la foto fu forse l’unica occasione per offrire ai posteri la documentazione visiva del loro transito per i luoghi nei quali ora siamo noi a vivere.
I loro nomi sono sconosciuti anche perché la “piccola storia” sembra seguire le stesse dinamiche della “Grande storia”. Essa non ama serbare il ricordo dei tanti che hanno vissuto senza ricercare in modo spasmodico la fama, il gesto eclatante e la ricchezza.
Ad essi, costruttori con il loro anonimo lavoro di tante Tebe dalle sette porte, “Mille Storie, mille memorie” intende dedicare “Domande di un lettore operaio”, una poesia che Bertolt Brecht scrisse nel 1935.

Domande di un lettore operaio

di Bertolt Brecht

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande
è piena d'archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l'India,
Da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la flotta
gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi,
oltre a lui, l'ha vinta?
Una vittoria ogni pagina,
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand'uomo.
Chi ne pagò le spese?
Quante vicende,
tante domande.

(traduzione di Franco Fortini)

© 2009 Francesco Capalbo

mercoledì 8 luglio 2009

Ricordando Giovanni de Giacomo



Bibliografia di riferimento:
Francesco Capalbo, Iustitiam Quaero. L'utopia pedagogica di Giovanni de Giacomo, Le Apuane n° 54, Novembre 2007
.

© 2009 Francesco Capalbo

lunedì 6 luglio 2009

Il Monsignore con il sigaro



di Francesco Capalbo

Nel febbraio del 1937, don Giuseppe Cauteruccio lasciò il suo incarico di parroco di San Sosti “per raggiunti limiti di età”. Aveva 67 anni, essendo nato a Buonvicino, da Angelantonio Cauteruccio e da Mastriota Marianna, il 2 marzo del 1870. Si congedò dalla popolazione con una toccante cerimonia ed un commovente discorso, che tenne nello spiazzo antistante l’attuale sede dell’agenzia Carime.
Don Peppino fu un brillante oratore, ma anche un prete d’azione che diede nuovo impulso ai lavori di ammodernamento del Santuario del Pettoruto. Fu mandato a San Sosti sul finire dell’ottocento, in un momento di particolare tensione tra i notabili locali che amministravano il Comune e la Chiesa: l’oggetto della contesa, manco a dirlo, erano le offerte del Santuario. Finì in seguito per sostenere insieme agli altri due preti di San Sosti, don Luigi e don Ciccio Malfona, il fascismo locale. Gestì comunque il Santuario del Pettoruto con rigore ed onestà. Sempre in compagnia dell’immancabile sigaro era possibile incontrarlo per le vie del paese avvolto in una nuvola di fumo; particolare questo che rendeva il personaggio leggendario, austero, autorevole e nello stesso tempo stravagante.
Morì a Buonvicino il 20 ottobre del 1940. Il corrispondente di Cronaca di Calabria, nel momento del suo commiato dalla cittadina del Pettoruto, lo immortalò in un efficace bozzetto che venne pubblicato sul quotidiano del 21 febbraio del 1937 e che noi riproponiamo di seguito. A don Peppino Cauteruccio successe don Francesco Amoroso, che rimase a San Sosti per oltre un cinquantennio.


Monsignor Cauteruccio fra noiCronaca di Calabria 21 febbraio 1937


Ha lasciato San Sosti, dopo 40 anni di vero apostolato di fede, Monsignor don Giuseppe Cauteruccio, figlio carissimo e prediletto di questa Buonvicino che di lui si onora e che egli tanto onora.
A San Sosti, egli, il lavoratore zelante, assiduo, fattivo della grande vigna del Signore, ha scritto una pagina di storia meravigliosa che il tempo, con le sue freddi ali, non potrà mai cancellare dai cuori dei figli amanti la Gran Santa del Pettoruto, che solo l’opera veramente sacerdotale di Monsignor Cauteruccio ha reso un monumento di fede e di amore cristiano. Un Santuario acquattato tra i monti, ove regina e madre Ella risiede, se è monte di grandezza e di vera gloria cristiana per tutti i figli e le anime belle di Calabria nostra, con nobile, sentito atto di fede, ma soprattutto con sincerità cristiana, diamo il merito a chi spetta.
E noi, per il lavoro indefesso, per l’opera altamente lodevole di questo apostolo di carità e di ogni bene che molti beneficiando e tutto sacrificando, vita ed averi, con larghi gusti di santo altruismo che non conosce limiti, toto corde, gridiamo: Viva Monsignor Cauteruccio, che ha profuso tutti i tesori inestimabili del suo cuore veramente nobile e generoso di sacerdote per la tutta pura del Pettoruto, per la quale vive, palpita, ama, prega e volentieri perdona.
Nella foto del 1924 don Peppino Cauteruccio è quello sulla destra. Nella stessa foto sono immortalati i bambini dell’asilo delle Suore Piccole Operaie dei Sacri Cuori di San Sosti e sono riconoscibili il vescovo dell’epoca Monsignor Salvatore Scanu, l’ingegnere Antonio Guaglianone ed in fondo il sacerdote don Ciccio Malfona.© 2009 Francesco Capalbo

lunedì 29 giugno 2009

Muse calabresi

Segnalato da Grazia La Cava

Il 3 luglio, alle ore 21, nel complesso monumentale San Giovanni di Catanzaro si terrà uno spettacolo musico- teatrale dal titolo “ Muse teatrali”, promossa dall'Associazione ASSOFORMAC e curata dalla cantastorie popolare Francesca Prestia. L’iniziativa sarà dedicata a quelle figure femminili che hanno ispirato la mente e la fantasia dei migliori scrittori calabresi quali Mario La Cava, Leonida Répaci, Corrado Alvaro, Franco Costabile, Saverio Strati.
La maestrale lettura dell'artista Mario Maruca e il canto d'a cantastorij, intervallate dai morbidi ed eterei movimenti di danza moderna di Tiziana Rotundo coreografati dal maestro Giovanni Calabrò (ArteDanza di Catanzaro Lido) tracceranno inaspettati ritratti di alcune figure femminili calabresi che hanno stimolato la creatività letteraria.
Il canto e la recitazione, la danza saranno accompagnati dai suoni della chitarra classica, della chitarra battente, del mandolino, del violoncello, del violino, della lira calabrese, del tamburello e delle percussioni popolari. Le ballate ed i canti appartengono in parte al patrimonio tradizionale calabrese e in parte sono composizioni originali di Francesca Prestia.

I brani prescelti per l'iniziativa sono stati estrapolati dalle seguenti opere:


Calabria, grande e amara di Leonida Répaci
L’allevatrice di bachi di Mario La Cava
Colloqui con Antonuzza di Mario La Cava
La scuola dei contadini di Saverio Strati
Il Mare di Corrado Alvaro
Il ritratto di Melusina di Corrado Alvaro
Ritorno del soldato di Mario La Cava
Acqua di Menta di Franco Costabile
Questa è un ulteriore omaggio che 'a cantastorij fa alla sua amata Calabria.


INGRESSO LIBERO


© 2009 Francesco Capalbo


martedì 23 giugno 2009

Fervori d'altri tempi

di Francesco Capalbo

Mi è stato chiesto come mai abbia pubblicato sul blog le foto (http://francescocapalbo.blogspot.com/2009/06/san-sosti-corpus-domini-2009vecchi-e.html) della cerimonia del Corpus Domini di San Sosti, fuoriuscendo apparentemente dai binari di una linea editoriale che vuole “Mille storie, mille memorie” impegnata solo sul versante della cultura e non della cronaca o in quello della polemica politica.
Il motivo è semplice: pur rispettando gli aspetti intimi ed alti del momento religioso, mi è parso importante contribuire a documentare quel che “rimane” nelle nostra società dei riti e delle cerimonie che nei tempi passati garantivano visibilità e consenso ai possidenti ed ai ceti dominanti.
In occasione di solennità come quelle del Corpus Domini, nei paesi dell’Italia Meridionale, è infatti possibile riscoprire tracce, anche a livello cromatico o nella foggia delle vesti esibite, di una religiosità ostentata che una volta legittimava il potere delle classi dominanti. Proprio attraverso il “rito dell’ombrello e del baldacchino” l'autorità dei nobili veniva percepita come edulcorata perché si assoggettava al potere divino, ma nello stesso tempo si imponeva come pervasiva e…immodificabile.
Ai giorni d’oggi queste “persistenze antropologiche” raccolgono lo stesso interesse delle tracce biologiche racchiuse all’interno dell’ambra: servono a ricordarci di forme religiose passate che per un giorno tentano di rianimarsi.
A proposito’ di queste problematiche, riporto di seguito un mio articolo dal titolo: “Fervori d’altri tempi”, pubblicato nel 2001 sul Quotidiano della Calabria e nel settembre dello stesso anno su “La Nostra Voce”, periodico diretto, con grande impegno, dal professor Luigi Fiore.

Fervori d'altri tempi

Tempi grami: di disinvolte abiure, di convinzioni che rimangono solide fin quando esibirle costa mezzo centesimo. Poi, basta che il vento cambi direzione ed esse si sgretolano. Neve di marzo! Prendete l’idea Risorgimentale dell’alterità della religione rispetto alle vicende dello stato.
Chi la sostiene più con dignità? È bastato che Bassolino presenziasse in contrito silenzio alla liquefazione del sangue di San Gennaro, che un esercito di replicanti con fascia tricolore ha colto ogni occasione per partecipare a processioni, messe, Te deum di ringraziamento. Sembra questa la nuova frontiera del consenso per un ceto politico meridionale (anche di sinistra!) privo d’identità culturale: “Signori non basta essere buoni. Che la bontà sia esibita ed intrisa di retorica clericale!” Idea nuova o furbizia già sperimentata? Cerchiamo nella bisaccia della storia. In un bel saggio dal titolo: “L’Italia prima dell’Unità (1815 – 1860)” Rodolfo Bracalini mette in luce il rapporto tra consenso religioso da parte dell’élites politica del Regno delle due Sicilie scrivendo : “Le manifestazioni del culto avevano assunto la forma del folclore e della superstizione. Alla processione del Corpus Domini intervenivano tutti i dignitari del Regno e la corte al completo con il re in testa in qualità di capo dello stato”. Quanto la partecipazione a queste cerimonie fosse sincera è Pietro Colletta a farlo notare: “…la religione declinava da che la filosofia avendo attenuate alcune credenze, e il malcostume tutte bandite, restava l’esercizio di pratiche vane non grate a Dio, inutili alla società; preghiere abituali cento volte al giorno ripetute, moto di labbro non di cuore; atti di penitenza non di pentimenti, e insomma superstizioni ( o peggio) ipocrisie, inganni. Questa era la religione del popolo e del re”. Furbizia già sperimentata, dunque. Non sfugga ai replicanti però un sottile particolare: in quei tempi erano i vescovi che giuravano fedeltà al potere temporale e non viceversa.

L’ immagine riproduce la “Processione del Corpus Domini”, olio su tela (cm 37 x 59) di Fortunato Teodorani (Cesena, 1888-1960) .
L’opera è conservata presso la Pinacoteca Comunale di Cesena


© 2009 Francesco Capalbo

giovedì 18 giugno 2009

NON LO SAPREMO MAI…Cosa scriverebbe oggi Mario La Cava su fatti e personaggi attuali?

Di Grazia La Cava

20 anni. Tanti son passati da quando mio padre ci ha lasciati. Da allora tanti fatti più o meno importanti, più o meno drammatici, più o meno futili sono accaduti nel mondo, in Italia e nel nostro piccolo universo di provincia. Fatti che quotidianamente ci colgono e ci coinvolgono, ci spingono al commento ed alla riflessione.
Cercando di allontanare i sentimenti privati che mi appartengono e che custodisco gelosamente, credo che essere orfani di Mario La Cava significhi essere orfani di un contributo prezioso su ognuno di questi accadimenti; prezioso proprio per l’originalità con cui i fatti venivano dibattuti ed esaminati, magari nell’intimità familiare o in presenza dei suoi tanti amici di cui egli si circondava, oppure scrivendone sui giornali con cui collaborava.
Ebbene, ogni qualvolta mi ritrovo a commentare piccoli fatti paesani o grandi argomenti politici e sociali ripresi dal giornale o dalla tv, mi piace immaginare quale sarebbe stata la sua opinione e quale il suo commento. Per rimanere ai temi attuali, quale sarebbe stato, per esempio, il suo pensiero sull’Italia governata da Berlusconi e dalla Lega, sui problemi dell’immigrazione, sulle ronde verdi e nere, sui fenomeni di intolleranza che emergono sempre più nel nostro Paese….
Non lo sapremo mai, ma possiamo immaginarlo.
Sarebbe forse sobbalzato, spalancando i suoi occhi – com’era solito fare quando rimaneva incredulo – ascoltando Ministri sollecitare e rivendicare ronde di infelice memoria. Probabilmente avrebbe studiato a fondo la personalità del nostro Primo Ministro per meglio capire le sue azioni ai limiti della legalità (se non oltre) e le sue strabilianti sortite. Soprattutto avrebbe studiato ed ironicamente descritto quei cittadini che di lui si fidano ed a lui si affidano, provandone invidia e ammirazione, magari individuandolo come esempio da seguire. Li avrebbe sapientemente “dipinti” in poche righe, evidenziandone in brevi tratti essenziali ogni loro incoerenza.
Nel nuovo rampantismo italiano avrebbe trovato fonte di ispirazione per nuovi “Caratteri” velati da sottile ironia, prendendo magari spunto dai tanti giovanotti che si aggirano per il paese o dai tanti improvvisati nuovi politici locali, legittimati ad essere tali solo dall’ignoranza imperante a più alti livelli.
Forse.
Di una cosa son sicura, però: l’Italia di oggi non gli sarebbe certo piaciuta.
“Distrussero il paese, avendolo condannato all’abbandono per fame; e poi ne illuminarono sfarzosamente le macerie” (Caratteri – n. 343). Così scriveva a quel tempo degli amministratori del suo paese. Quale graffiante commento scriverebbe oggi sugli attuali amministratori che non hanno voluto commemorare la sua memoria a cento anni dalla sua nascita?
Non lo sapremo mai, ma possiamo immaginarlo.

Bovalino, 16 Giugno 2009


La vignetta di Staino è apparsa sull’Unità del 24 maggio 2009.
Per le note biografiche su Mario La Cava si rimanda al seguente indirizzo: http://francescocapalbo.blogspot.com/2009/05/mario-la-cava-il-mestiere-di-essere.html


© 2009 Francesco Capalbo


venerdì 12 giugno 2009

Lo sgranocchiatore

di Francesco Marasco & Francesco Capalbo


La cosa veramente tragicomica, sia di questa, che delle precedenti tornate elettorali, non è stata la rivalità tra le liste in competizione (cosa legittima del resto!), quanto l’atteggiamento di alcuni tipi di persone che, guardandosi bene dall’esporsi, ora sono i primi a festeggiare i nuovi vincitori. Nel variegato panorama di personaggi che popolano l’agone politico, è degna di attenzione antropologica la figura dello “sgranocchiatore”di professione, ovvero di colui che vive cercando sempre qualcosa da “sgranocchiare” con tutti i governi comunali.
Durante l’intera campagna elettorale, il silenzioso roditore ha avuto paura di mettersi in mostra: chiuso a chiave in casa, è rimasto in letargo, attorcigliato sotto la viscida penombra di se stesso. Costui, invero, appartiene a una tipologia d’individui che vivono oppressi da una sorta di ansia, che nello specifico definiremo da consultazione elettorale e non già perché tenga a cuore il destino del paese… no! Pensieroso,si arrovella non per il futuro del proprio borgo (per lui potrebbe andare anche alla malora!), quanto per il volume del proprio portafoglio. Per tal motivo si preoccupa di capitalizzare con circospezione sia le frequentazioni, sia i comparaggi con i microscopici potenti di turno dell’Amministrazione Comunale.
Com’è d’uso nel regno delle sanguisughe, l’amebico roditore non ha scrupoli: basta che sia sangue e ogni gruppo sanguigno da salassare va bene! Si potrebbe affermare che per lui la cute del bue vale quanto quella dell’asinello.
Puntuali giungono però le elezioni comunali a sparigliargli le carte. Invano i familiari fanno di tutto per mandarlo fuori a prendere una boccata d’aria… Non c’è niente da fare: duro come un mulo si pianta in casa con pigiama e babbucce e a nulla valgono gli incoraggiamenti, le rassicurazioni che, comunque si giri la frittata, lui cadrà sempre in piedi, proprio come “Ercolino”! Nella sua testa si agitano mille supposizioni e si aprono scenari sconfortanti: questi lo perseguitano e non lo fanno dormire neanche se ingurgita litri di decotti, di papagne e di camomille. “E se mi vedono con Tizio e poi vince Caio, cosa mi capiterà? E se si accorgono che simpatizzo per Caio e poi vince Tizio, che mi succede? Potrei strizzare l’occhio sia all’uno, sia all’altro; ma forse è meglio stare in casa e aspettare che si consumino i giochi, che si mostri qualcosa di certo e poi si vedrà!”
E’ al momento dello spoglio delle schede che il rosicchiatore finalmente si rende visibile; tutto occhiolini e sorrisini di circostanza, con penna e foglio di carta in mano, lo avrete di certo osservato molte volte nei seggi elettorali, intento a far calcoli, conteggi, proiezioni e…castelli in aria. Avuta la certezza aritmetica della vittoria della lista Taldeitali, è il primo a distribuire bacetti e strette di mano esclamando con gelido calore: “Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta!” In quel preciso istante altri amici ed altri compari hanno già soppiantato i suoi vecchi amici ed i suoi vecchi compari: l’importante non è la fedeltà ad un ideale, quanto trovare sempre qualcosa da triturare con i denti. Poi, dopo cinque anni, le preoccupazioni ricominceranno daccapo: il dubbio da consultazione elettorale si materializzerà di nuovo e lo sgranocchiatore di professione aspetterà con rinnovata trepidazione il momento dello scrutinio. All’istante della proclamazione degli eletti, griderà per l’ennesima volta con un urlo liberatorio che lo legherà a nuove schiavitù: “Ce l’abbiamo fatta! Ce l’abbiamo fatta !”.

L’ immagine riproduce “I mangiatori di ricotta”, un dipinto di Vincenzo Campi (Cremona, 1536-1591) conservato a Lione, nel Museo delle Belle Arti.


© 2009 Francesco Capalbo

mercoledì 10 giugno 2009

Sinistre vocazioni

La vignetta di Vauro è tratta da "il manifesto" di lunedì 9 giugno 2009

© 2009 Francesco Capalbo