mercoledì 23 dicembre 2009

Confine


di Francesco Capalbo
Nel dicembre del 1979 Alberto Cavallari, che due anni più tardi sarebbe divenuto direttore del Corriere della Sera, augurò ai suoi lettori Buon Natale raccontando tante storie di Natale; lui stesso le aveva lette con grande maestria sui volti della gente, nella cronaca, negli avvenimenti di quegli anni, nelle lotte sociali e prim’ancora nella sofferta storia di noi italiani.
Erano anni in cui le ideologie si confrontavano in maniera aspra e parole auree come destra e sinistra districavano tutta la loro idolatrica potenza. Nel loro nome si costruivano solchi, fossati e trincee che attraversavano le comunità piccole e grandi ed anche le stesse famiglie.
Alberto Cavallari non era solito farsi incantare da categorie che in Italia rappresentano ancora ai nostri giorni specchietti per allodole agitati, all’evenienza, da demagoghi in cerca di consenso. La frattura, la faglia sismica, il limen che lui descrisse in quel famoso articolo non divideva la destra dalla sinistra, ma l’orda dei furbi dal popolo dei fessi che insieme costituivano e costituiscono tutt’ora l’essenza antropologica della nostra nazione.
Il blog “Mille storie, mille memorie” non avendo in uso far gli auguri di Natale recitando convenevoli ritornelli, propone la lettura dell’articolo di Cavallari con l’intento di contribuire a render chiari sia gli aspetti reconditi del nostro carattere collettivo, sia la malcelata ipocrisia dei re che a Natale si “scambiano l'argento e la mirra avendo deciso che bisogna finirla con la megalomania d'un bambino che pretende anche lui la corona”.

Il Natale ''dei fessi e dei furbi''

di Alberto Cavallari

Ci sono tante storie di Natale. C'è quella della stazione di Milano, per esempio, dove si potevano vedere nei giorni scorsi decine di vecchi seduti sulle valige di fibra, con decine di bambini avvolti in scialli e coperte. Parevano le solite famiglie in arrivo dai luoghi d'emigrazione, in attesa del solito treno del sud, ma non era così. Bastava domandare: per scoprire che si trattava di nonni venuti dal sud, in attesa di treni diretti ancora più a nord, diciamo Svizzera, Germania, Francia, e che lo scopo del viaggio era di portare i figli dei loro figli a vedere i padri e le madri che lavorano a Lilla, Dùsseldorf, Zurigo, e che nemmeno rientrano a Natale. Così si vide partire un treno di nonni e di nonne, un treno di capelli bianchi, di rughe, di scialli neri, di spalle ricurve, e tutti erano carichi di bambini, valige, miseria, fatica, stanchezza, ma con una luce negli occhi. Era il Natale dei vecchi italiani che si mettono in viaggio per ricostruire lontano il presepe distrutto. C'è poi la storia raccontata nei giornali dei trenta quattromila messinesi che vivono in tuguri e baracche perché nessuno ha più ricostruito le case del terremoto del 1908, e così "terremotati si nasce": mentre altri italiani nel Belice, in Friuli, nella Val Nerina, ingrossano il numero di chi attende una casa, e vorrebbe rifare il villaggio travolto, riavere il presepe perduto. Ma i ministri dimenticano, le leggi aspettano, la "priorità"non funziona, la stella cometa non appare mai, il cronista descrive tuguri, topaie, canili, baracche, che si addensano nei pianori, nelle valli, sulle colline, diciamo pure il nuovo presepio che stiamo edificando. C'è poi la storia che raccontano le riviste illustrate: dei capitani d'azienda, dei baroni d'ufficio, dei mandarini sociali, che si scambiano regali favolosi, valigie di coccodrillo da sei milioni, orologi da due, bottiglie preziose da collezione, e poi partono per i caldi Caraibi, visto che del presepio interessa soltanto il finale, l'arrivo dei regali, il minuetto dei re che si scambiano l'argento e la mirra avendo deciso che bisogna finirla con la megalomania d'un bambino che pretende anche lui la corona. Ma siccome l'imitazione dei ricchi prevale sull'imitazione di Cristo, ecco milioni di non ricchi che sperperano, partono, regalano, distruggendo quel poco presepio che potrebbe sopravvivere. C'è poi la storia dei giovani: che non trovano lavoro, che non trovano casa, che trovano droga e corruzione, proprio mentre cominciano il viaggio verso Betlemme, magari con una donna al fianco, magari con un bambino da crescere. Ma non è facile trovare capanne, asini, buoi, pastori, contadini, in un paese che ha favorito lo svuotamento delle campagne, lanciato il mito dell'industrializzazione selvaggia, premiato l'uccisione dei vitelli, distrutto l'ambiente e la natura, combattuto la tradizione, travolto ogni equilibrio. Infatti, si sono trovati miliardi per tangenti e bustarelle, ma non s'è trovata una lira per far vivere meglio chi lavora nei campi, cura le piante, alleva vitelli e conigli. Così, mentre arriva la crisi scopriamo di non avere nemmeno la risorsa fondamentale che si chiama agricoltura: questo "presepe" economico che i tecnocrati dei salotti hanno giudicato superato. C'è poi la storia del "lavoro sommerso": del paese che sta in piedi perché la gente produce, traffica, lavora, in una zona d'ombra che sfugge ai censimenti di Erode. I soliti centurioni la scoprono, la denunciano, la discutono naturalmente tra una vacanza e l'altra alle Antille e nella loro nota ignoranza vorrebbero che fosse organizzata, orientata, fiscalizzata, fiatizzata o irizzata. Ma basterebbe fargli leggere la storia del capitalismo che Braudel ha finito da poco, lavorando vent'anni, per sapere che un'economia ha sempre somigliato a una casa a tre piani. Al primo piano ci sono "le strutture del quotidiano". Al secondo piano c'è "il gioco degli scambi". Al terzo piano c'è il capitalismo (privato o di stato). Quando al terzo piano si sbagliano le direttive, le cose si salvano al piano sottostante; e quando persino gli "scambi" del secondo piano s'inceppano, fortunatamente scatta la "cultura del materiale", fatta di uomini in cerca di nutrimento, soldi, tecniche, strumenti di lavoro. Perché meravigliarsi se, privi di un terzo piano funzionante, paralizzato persino il mercato, il mondo italiano sopravvive barricandosi al primo piano?Ma fermiamoci qui. Tutte le storie di Natale potrebbero confluire in una storia sola. Voglio dire nella famosa parabola "dei furbi e dei fessi" scritta da Prezzolini al tempo di Caporetto. Infatti, mentre incombeva la più grande tragedia del risorgimento nazionale, mentre tutto crollava e mentre tutti scappavano, Prezzolini ebbe il coraggio di lanciare una teoria e di formulare una previsione. L'Italia, disse, è un paese fondamentalmente costituito da furbi e da fessi. I furbi comandano, arricchiscono, sbagliano, perdono, mandano allo sbaraglio i fessi. I fessi combattono, lavorano, accettano, lottano, sono persino capaci di morire per la patria. Pertanto, siccome i furbi hanno prodotto Caporetto, e siccome resta sempre una immensa riserva di fessi, è facile prevedere che i fessi verranno mandati al fronte, che accetteranno ancora una volta di combattere, che si faranno uccidere, e che alla fine riusciranno a vincere. Né Prezzolini aveva torto. La sua teoria funzionò, e con essa la previsione. Passate poche settimane, cessò la Caporetto dei furbi. Puntualmente si verificò l'immancabile Vittorio Veneto dei fessi. Il lettore avrà già capito che tra tutte le storie del Natale '79 si deve scegliere l'ultima, che riassume le altre. Infatti, il teorema di Prezzolini è sempre valido, comprese le sue famose enunciazioni. L'Italia di cui Prezzolini parlava sessanta anni fa e rimasta la stessa. un paese dove "l'intelligente è un fesso anche lui"; dove "il furbo non usa mai parole chiare, e comanda non per la sua capacità ma per l'abilità di fingersi capace"; dove "i fessi hanno dei principi, i furbi soltanto dei fini"; dove "in generale il fesso è stupido, perché se non fosse stupido avrebbe cacciato via i furbi da parecchio tempo"; dove "ci sono i fessi intelligenti e colti che vorrebbero mandare via i furbi, ma non possono: primo, perché sono fessi; secondo, perché gli altri fessi sono stupidi e non li capiscono"; dove " per andare avanti ci sono soltanto due sistemi: il primo è leccare i furbi; il secondo - che riesce meglio - consiste nel far loro paura; infatti, non c'è furbo che non abbia qualche marachella da nascondere, e non c'è furbo che non preferisca il quieto vivere alla lotta, e l'associazione con altri briganti alla guerra contro questi ". Si potrebbe citare a lungo questa diagnosi, che resiste al tempo, alla moda, ai trasformismi. Ma il lettore ha capito e saprà continuare da solo, e aggiornare queste parole con volti e con fatti, con situazioni e vicende, che perpetuano - sessant'anni dopo - l'Italia di sessanta anni fa. Ciò che interessa, qui, è precisare che la generazione di Prezzolini sbagliò tutto: vedendo la soluzione nel fascismo, cioè nell'uso fatto dai furbi della disperazione che nasce nell'animo dei fessi quando si combattono tra di loro. Mentre dobbiamo chiederci, adesso, quale sia la via d'uscita per impedire ai furbi di portarci nuove Caporetto, e per impedire ai fessi di regalare ai furbi nuove Vittorio Veneto. Dopotutto, il meccanismo violenza - autoritarismo è sempre pronto a scattare facendo leva sulla stanchezza, sul terrorismo, sul timore del peggio; e impaurisce un "ordine" che viene proposto ai fessi attraverso" l'associazione dei furbi con altri briganti ".Che fare, allora, sessant'anni dopo? Che fare mentre il Natale 1979 riporta gli stessi problemi del Natale 1919? Che fare mentre il paese rivive la sua permanente tragedia dei furbi e dei fessi? Probabilmente, la risposta non è nel gioco degli schieramenti che si perpetua, nel sofisticato intrigo dei furbi che si consuma a Roma, nel bigliardo politico che si gioca usando vecchi tabù contro una classe lavoratrice sempre esclusa (per una ragione o per l'altra) dal governo del paese. Probabilmente è nel capire che non va solo chiesto ai " fessi " di combattere a Caporetto. Infatti, il prossimo Natale sarà forse troppo tardi. Potremmo scoprire che non si torna indietro lungo la strada intrapresa, in un'Italia dove il "sistema" sembra poggiare sui soliti "due sistemi" di Prezzolini. Primo, essere cortigiani dei furbi. Secondo (come gli scandali dimostrano), fargli soltanto paura per essere chiamati a dirigere e comandare in una associazione perpetua di finti fessi e di furbi veri che si strizzano l'occhio. Diciamo pure: in un succedersi di disfatte - vittorie e di vittorie - disfatte che impediscono al " paese reale " di nascere, cioè di avere finalmente il proprio Natale.
© Francesco Capalbo 2009

venerdì 11 dicembre 2009

I rossi dell' Immacolata









© Francesco Capalbo


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venerdì 4 dicembre 2009

U trividdru da Vijlia

di Francesco Capalbo

Anche quest’anno la sera della Vigilia dell’Immacolata il fuoco dei falò scalderà l’attesa per il rito secolare “du trividdru” (la spillatura) del vino nuovo. Ai tanti che, a San Sosti e nell’Alta Valle dell’Esaro, ancora si cimentano nella nobile arte di spremere da uve meticcie gocce di felicità policrome,il blog "Millestoriemillememorie” dedica “Sonetto al vino” di Jeorge Luis Borges.


SONETTO AL VINO

di JORGE LUIS BORGES[1]


In quale regno o secolo
e sotto quale tacita
congiunzione di astri,
in che giorno segreto
non segnato dal marmo,
nacque la fortunata
e singolare idea
di inventare l’allegria?
Con autunni dorati
fu inventata.
Ed il vino
fluisce rosso
lungo mille generazioni
come il fiume del tempo
e nell’arduo cammino
ci fa dono di musica,
di fuoco e di leoni.
Nella notte del giubilo
e nell’infausto giorno
esalta l’allegria
o attenua la paura,
e questo ditirambo nuovo
che oggi gli canto
lo intonarono un giorno
l’arabo e il persiano.
Vino, insegnami come vedere
la mia storia
quasi fosse già fatta
cenere di memoria.

[1] Buenos Aires, 1899 - 1986



© Francesco Capalbo


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