domenica 31 maggio 2009

Quel che resta del niente


di Francesco Capalbo
La foto immortala i festeggiamenti per la vittoria della “Campana”, una lista dichiaratamente di sinistra, nelle elezioni del giugno 1980 per il rinnovo del Consiglio Comunale di San Sosti.
Sono ben in mostra l’onorevole Giacomo Mancini, l’onorevole Salvatore Frasca ed il consigliere regionale Luigi Tarsitano, che di quella vittoria furono sagaci ispiratori con le loro battaglie.
Molti dei signori che nell’80 sconfissero la lista della D.C e che sono ritratti sul palco, ancora oggi “fanno politica” ma… su fronti opposti.
Lo stridore tra le aspettative, gli entusiasmi e i sani ideali di quegli anni e l’involuzione politica e culturale dei nostri giorni, ci invita alla rilettura di alcuni versi di una poesia scritta da Trilussa. Il titolo:“Riunione socialista” potrebbe, per l’occasione, essere riadattato in:“Riunione social - comunista”. Anche se scritta nel 1911, essa esprime con acume atemporale, quello che oggi rimane di alcuni… antichi ardori.

“Allora li vedevo all’osteria
Erano una ventina e tutt’eguale,
uniti ner medesimo ideale
pe’ demolì la grassa borghesia.

Ma poi Checchino aperse un’aggenzia,
Pio diventò padrone di un locale,
Giggetto fece un zompo ar Quirinale,
uno annò fora e un antro scappò via…”


© 2009 Francesco Capalbo

domenica 24 maggio 2009

La bambina col vestito bagnato

di Nadia Rao

Nel 1959 ero una giovane maestra che prestava la sua opera educatrice nei paesini della provincia di Cosenza, ancora provati dagli echi di una guerra passata ma non dimenticata e con una povertà diffusa che affondava le sue radici in tempi ancora più lontani. Non poteva essere altrimenti, dato che le regioni del Centro e del Nord Italia, pur avendo giocato una parte da leone nei disastri del grande conflitto, si preparavano ad un prospero futuro, il boom degli anni sessanta, mentre le nostre povere regioni meridionali arrancavano tra difficoltà e storiche arretratezze.
A pensarci adesso, sembra addirittura strano che in un paese come Cerasello di Acri, che in quegli anni non poteva ancora disporre di strade asfaltate e dell’energia elettrica nelle case, ci sia stata la volontà di qualche amministratore “illuminato” di costruire un edificio scolastico interamente dedicato agli scolari e alle loro maestre. Anzi alla loro maestra, perché la mia era una pluriclasse con bambini dalla prima alla quinta elementare, provenienti da Cerasello ma anche dalle sperdute campagne dei dintorni e tutti con un massimo comune denominatore: l’indigenza. Non era normale povertà: era disagio estremo e, in taluni casi, degrado.
Quell’anno trovai una strana bimba nella mia classe: sono troppi gli anni trascorsi e la mia memoria ormai appannata non mi consente di ricordarne il nome. Ma la rivedo ancora, silenziosa e schiva, seduta al suo banco, sempre sola perché nessuno voleva starle vicino a causa del suo aspetto sciatto e trasandato e del cattivo odore che emanava. Le guardavo il bel faccino velato sempre da una patina scura, incorniciato da capelli mai lucidi e ben pettinati e il vestitino di cui non si poteva indovinare più l’originario colore e mi si stringeva il cuore.
Ero anche una giovane mamma, tutta coccole e attenzioni per il mio bambino e mi sembrava sacrilego che non ci si occupasse di una bimba così piccola e indifesa! E così un giorno la trassi in disparte e cominciai a parlarle dell’importanza dell’igiene e della pulizia raccomandandole di dedicare un po’ di tempo di ogni sua giornata a detergere il corpo e di indossare abiti puliti. Ricordo che abbassò gli occhi e non rispose ma il giorno seguente tornò con il viso e le mani terse, i capelli pettinati e il vestito senza macchie ma, ahimè, ancora bagnato, incollato addosso: non ne aveva altri! Sicuramente lo aveva lavato prima di venire a scuola e non si era ancora asciugato. Non ne aveva altri…
Ancora adesso rammento lo sgomento misto a tenerezza che provai vedendola e spesso mi sorprendo a pensare a lei mentre guardo le mie nipotine così belle nei loro vestiti sempre nuovi e così ignare di un tempo in cui era superfluo anche il necessario. E racconto loro le mie storie, tutte impresse nella mente, nonostante qualche contorno sfumato, affinchè apprezzino i privilegi che hanno: mi ascoltano con attenzione, a volte con incredulità altre con commozione. L’importante è che ascoltino: per imparare e per non dimenticare.


Nadia Rao, docente di Matematica, è nata a San Fili e vive a Cosenza.

La foto è tratta dal libro di Franco Scillone: “Tam tam in Calabria”, Edizione Prometeo, Castrovillari (Cs), 2004.

© 2009 Francesco Capalbo

sabato 23 maggio 2009

I girasoli: memorie di guerra


di Adelina Cataldo

Partimmo giovani e carichi di entusiasmo per l'avventura bellica che ci si prospettava: "Bisogna difendere la patria", pensavamo, mentre, neppure una volta, ci sfiorò l'dea che, più che di difesa, si trattasse di una vera e propria invasione.
Il 21 giugno 1941, Hitler aveva dato ordine alle proprie divisioni di iniziare l’operazione “Barbarossa”, cioè l’invasione dell’Unione Sovietica.
Mussolini fu avvisato solo ad operazioni iniziate e, dopo aver smaltito l’umiliazione di non essere stato consultato preventivamente dall’alleato, decise che anche l’Italia fascista dovesse contribuire alla sconfitta del comunismo e predispose un primo invio di truppe.
CSIR, ossia Corpo di Spedizione Italiano in Russia, era il nome di questo primo insieme di truppe che comprendeva un totale di circa 50.000 uomini, 5.000 automezzi, 4.600 quadrupedi ed 80 aerei. I nostri soldati calzavano scarponi di cuoio con 72 chiodi cadauno ed indossavano divise di tessuto grigioverde buone per tutte le stagioni. Erano armati con moschetto Manlincher Carcano mod. 1891, poche armi automatiche, bombe a mano “offensive” che facevano più rumore che danni, ed artiglieria, spesso, risalente al primo conflitto mondiale. Quasi nulla era la dotazione di carri armati. Il CSIR fu impiegato alle dipendenze del 3° corpo corazzato tedesco, al comando del gen. von Kleist, sul fronte del fiume Dnestr, e si comportò bene, sostenendo l’avanzata e conquistando vari centri importanti.
Nel giugno del 1942, Mussolini decise però di aumentare il contributo italiano contro l’odiato comunismo sovietico e fu creato l’ARMIR, ovvero l’Armata Italiana in Russia. Io mi gloriavo di far parte di questa nuova grande unità italiana, comprendente un totale di circa 230.000 uomini. Anche l’ARMIR all'inizio si comportò bene, ma, con l’arrivo dell’inverno a cavallo tra il 1942 ed il 1943, ebbe inizio la tragedia.
Eravamo schierati sul Don, a protezione del fianco sinistro della 6ª Armata tedesca che assediava Stalingrado, col compito di difendere un settore di fronte lungo circa 300 Km.Il settore all’estrema sinistra delle posizioni italiane era presidiato dagli Ungheresi, mentre l’ala destra era tenuta dai Romeni.
Le nostre truppe furono coinvolte e travolte dalla massiccia offensiva invernale dell’Armata Rossa, che aveva come obiettivo principale quello di chiudere in una sacca le truppe tedesche che circondavano Stalingrado. La rottura del fronte tenuto dai Romeni e, a Sud, dai tedeschi, mise in crisi l’intero fronte del Don. Infatti, pur non essendo chiuse nella sacca, già dalla fine di novembre ’42, le truppe italiane ebbero l’ala destra scoperta.
Fu l’inizio della fine.
L’11 dicembre iniziò l’attacco russo contro il nostro 2° Corpo d’Armata che provocò la rottura del fronte e l’inizio dell’aggiramento delle posizioni italiane. In conseguenza di ciò, si aprì il primo atto della tragedia della ritirata. Furono quarantacinque giorni d’inferno nella steppa russa, freddo, gelo, vento, incursioni di carri armati, mitragliamenti e bombardamenti aerei, quaranta gradi sotto zero senza cibo, con indumenti laceri, il giorno iniziava e finiva unicamente nella marcia. Dopo qualche anno, appresi che, su 220.000 soldati, solamente 100.000 riuscirono a salvarsi, gli altri furono catturati dai russi, uccisi, morirono congelati o vennero dichiarati dispersi. In seguito, si era congetturato che molti dispersi si sbandassero volontariamente nelle campagne russe, divenendo disertori.
In quel momento di enorme stress fisico e mentale, mi tornarono in mente quei compagni che qualche tempo prima, avevo visto allontanarsi, alla ricerca di semi di cui cibarsi, e che poi avevano preferito restare accovacciati nei campi di girasole, approfittando di quei fiori alti per nascondersi e disertare. Erano i cosiddetti "girasoli", soldati volontariamente sbandati e dispersi negli immensi campi di fiori gialli.
Tentare di descrivere ciò che accadde nelle steppe russe in quell’inverno del 1943 è praticamente impossibile per chi ha avuto la fortuna di non essere testimone diretto di quegli eventi; si può solo avere un’idea dell’inferno che fu la ritirata dei nostri reparti. Fummo costretti a percorrere a piedi centinaia di chilometri sfuggendo a un nemico che ci circondava e ci attaccava a piacimento. Fu proprio in occasione di uno di questi assalti che io e il mio compagno, il soldato semplice Pirillo, fummo costretti ad allontanarci dal nostro reggimento, e approfittando della confusione, demmo inizio, anche noi" alla nostra avventura da "girasoli". La vita da sbandato, però, non era certo semplice. I carri armati sovietici T 34, i cosacchi con le loro cariche selvagge, ed i partigiani continuavano a seminare morte e panico, ma il pedaggio più caro fu pagato all’inverno che, quell’anno particolarmente rigido, fece scendere la temperatura fino ai 40°, 45° sottozero. In condizioni simili, la vita umana diviene difficile, tanto più se si è costretti a marce forzate, senza cibo e riparo dalle intemperie e con abbigliamento del tutto inadeguato al clima.
Fortunatamente, dopo non so quante ore di cammino, quando era ormai scesa la notte, giungemmo a un gruppo di piccole isbe (così venivano chiamate le capanne dei contadini della steppa russa, costruite con tronchi di albero e ricoperte di paglia o frasche) e decidemmo di bussare ad una di quelle piccole porte. Dall'interno nessuna risposta, così provammo ad aprire con forza e alla fine il legno poroso e mezzo gelato cedette, permettendoci di accomodarci all'interno. La capanna era piccola, come una stanza e sembrava disabitata da tempo. C'era un piccolo focolare, ma nessuna pentola o attrezzo da cucina nei dintorni. A terra un po' di paglia e in un angolo qualche straccio e un sacco, non molto grande, che le Provvidenza sembrava aver messo lì appositamente per noi; conteneva semi di girasole, seppure vecchi di anni, e con qualche verme ormai congelato all'interno, e dopo una cena a base di quell'alimento, avvolgemmo i piedi negli stracci, e ci addormentammo sul pavimento, infreddoliti, ma grati di essere ancora vivi.
Alle prime luci del giorno, la sola vista della neve risultava più ripugnante che mai, ma bisognava pur uscire e cercare qualcosa da mangiare. Il paesaggio attorno non era dei più promettenti, ma non molto distante da lì era un'altra isba, un po' più grande, con un piccolo recinto da un lato, pochi tronchi di legna accatastata e un orto con qualche foglia verde che da lontano non riuscivamo ad associare ad alcuna pianta in particolare. Sulle piantine, una donna, magra e apparentemente giovane chinata, intenta a raccogliere qualche foglia o ortaggio che non si riusciva a distinguere. Iniziammo ad avanzare in quella direzione, senza sapere esattamente cosa dire o fare, mentre la donna si apprestava a rientrare. Doveva averci scorto però, perché si fermò davanti alla porta, per nulla intimorita, mentre noi cercavamo di apparire quanto più innocui possibile. Accennammo ad un sorriso e ad una sorta di saluto. La donna, che poteva avere 25-26 anni al massimo, era alta, bionda, con la carnagione chiara , gli occhi castano chiari e le guance rosse e screpolate dal freddo.
Non conoscevamo la lingua, ma a gesti riuscimmo a farle capire il nostro stato, che doveva essere più che evidente già dall'aspetto. Eravamo, stanchi, infreddoliti e affamati e la giovane, con nostra grande meraviglia ci fece cenno di entrare. Nella capanna, un terribile tanfo causato dallo sterco che, in seguito, apprendemmo essere uno dei materiali di lega usata dai contadini per le loro capanne, a quanto pare, piuttosto efficace per isolarsi dal vento freddo. Vicino al focolare, ancora spento, ma forse con qualche brace della sera precedente, una donnina anziana, seduta su una specie di panca fatta di tronchi d'albero. L'anziana ci guardò sbigottita, ma la giovane corse subito a tranquillizzarla, pronunciando più volte la parola "ба́бушка", che in seguito apprendemmo significa "nonna". Non so come, ma in poco tempo entrammo a fare parte di quella piccola famiglia, a cui la guerra aveva strappato via gli uomini, padre e fratelli della giovane, e che pertanto necessitava di braccia forti per il lavoro nell'orto e soprattutto per procurare la legna, che, nell'inverno russo, risultava più preziosa anche del cibo. Continuammo a dormire nella piccola isba abbandonata, ma durante il giorno prestavamo il nostro lavoro in cambio di cibo e di un po' di legna per noi.
Trascorremmo due anni nel villaggio, e nel frattempo l'anziana donna morì e Pirillo si trasferì dalla nostra giovane amica, che nel frattempo era diventata la sua compagna e la madre di suo figlio. I giorni si susseguivano lenti e tutti uguali. Un giorno presi il coraggio a due mani e mi incamminai verso la ferrovia, sapendo che quella rappresentava l'unica speranza di rientrare in patria. Presi con me poche cose e iniziai a camminare attraverso la steppa, dove la neve e il ghiaccio avevano lasciato un terreno morbido e fangoso, non proprio agevole. Dopo un intero giorno di cammino intravidi finalmente i binari. Decisi di aspettare e di saltare sul primo treno merci che passasse di lì, e così feci. Sarebbe troppo lungo raccontare gli stenti e le varie peripezie di quel viaggio, ma dopo non so nemmeno quanti giorni (nei vagoni, tra un treno e l'altro, una dormita e l'altra, si confondevano il giorno e la notte), arrivai in Italia, in Veneto, raggiungendo infine Zianigo, una frazione a circa 3 km a nord ovest del comune di Mirano.
Lì mi accolse una famiglia di contadini, presso la quale restai in segreto per un po' di tempo, visto che le parti si erano nel frattempo invertite e i tedeschi ora davano la caccia ai soldati italiani, ritenuti traditori. La famiglia mi dimostrò una lealtà e un affetto senza precedenti, soprattutto in occasione di una visita da parte di alcuni soldati tedeschi alla ricerca di rifugiati. Mi avevano nascosto in una botola sotto al pavimento, e per pura fortuna ai soldati non venne in mente di scostare quel tappeto.
La figlia maggiore della coppia era una giovane di circa venti anni, semplice, bruna e molto attraente, di nome Emma. Ci innamorammo quasi subito; era inevitabile che accadesse, ma il nostro era un sentimento puro e a causa della mia gratitudine verso la famiglia non mi sarei mai sognato di mancarle di rispetto. Decisi pertanto di sposarla; glielo proposi e lei reagì con grande entusiasmo e commozione. Nel frattempo, la guerra era finita anche in patria, ed era giunta l'ora di ritornare a casa, in Calabria, dove mia madre mi piangeva ormai per morto. Mi diedero una bicicletta e un fagotto di stoffa con dentro alcuni viveri, e così partii, con la promessa che sarei tornato per sposare la mia Emma.
Anche questo viaggio fu lungo e pieno di imprevisti. Mi vedevo costretto ad accamparmi per la notte, soprattutto perché non c'era visibilità sufficiente per proseguire, e una volta che tentai di farlo, mi fermai appena in tempo sul ciglio di un precipizio creatosi a causa di un ponte crollato, distrutto dai bombardamenti. Ci vollero nove giorni per raggiungere il paese, ma la gioia che provai mi fece dimenticare tutta la fatiche e le sofferenze. Mia madre pianse due giorni dalla felicità, e ancor più quando le dissi che stavo per sposarmi. Mi disse che avremmo fatto una grande festa, con musica e tanti fiori.
"Tanti Fiori?", risposi un po' distratto, "Sì, tanti girasoli gialli."



Il racconto breve è di Adelina Cataldo che, nata a Chicago, vive ora a San Lucido (Cs); è lettrice d’Inglese presso l’Università della Calabria.
La foto riproduce “ Campo di girasoli” un acquerello, cm 30 x 40, di Sergio Tisselli del 2007 e proviene dal sito: http://colory55.blogspot.com.



© 2009 Francesco Capalbo

mercoledì 20 maggio 2009

Un sogno realizzato a caro prezzo




di Katia Belmonte

“Seguimi un po’, vediamo se ricordo ancora tutto bene...”, così esordiva mio nonno quando, da bambina, andavo a fargli visita. Mi consegnava un volume consunto, dalle pagine ingiallite, come se fosse una reliquia e declamava i versi di Dante con una tale passione da lasciarmi ogni volta stupefatta ed affascinata. Mi sembrava incredibile il fatto che un uomo di origini umili, che per la maggior parte della sua vita non aveva fatto altro che lavorare la terra e badare agli animali, fosse capace di recitare, all’età di ottant’anni, i versi della Divina Commedia senza sbagliare una parola e di farlo con una tale enfasi, con un tale coinvolgimento emotivo da emozionarmi ogni volta. E come era bravo a spiegare e commentare quei versi!
Ogni tanto ripenso a lui ed ogni volta mi torna in mente la sua storia, una storia che vorrei non andasse perduta.
Giovanni Ferraro nacque il due gennaio del 1900 in un paesino della pre-Sila da una famiglia di umili origini. Era ancora piccolo quando si trasferì a Corigliano Calabro, dove suo padre aveva trovato lavoro alle dipendenze di un proprietario terriero del luogo. Era un bambino che si distingueva per una spiccata intelligenza ed una ferrea volontà; all’età di nove anni Giovannino, così lo chiamavano tutti, aiutava suo padre nel lavoro dei campi, ma il suo più grande desiderio era quello di imparare a leggere e scrivere, desiderio che aveva tanto il sapore di un sogno irrealizzabile: la sua famiglia non aveva assolutamente i mezzi per dargli un’istruzione. Ma, si sa, il sentiero della vita può assumere a volte forme così contorte…e condurre in luoghi inimmaginabili! Ed il corso della vita di Giovannino cambiò decisamente direzione. Un giorno egli si trovò ad assistere, suo malgrado, ad una discussione tra due braccianti che lavoravano insieme a suo padre: i due stavano progettando di rapinare un uomo del luogo. Resisi conto che il bambino aveva udito tutto, lo costrinsero a seguirli nell’impresa, minacciandolo di morte nel caso in cui avesse raccontato il fattaccio a qualcuno. Giovannino era terrorizzato, ma molto più sveglio ed astuto dei due ladri: nel bel mezzo di un campo coltivato a mandarini riuscì a sfuggir loro con uno stratagemma. La rapina fu comunque portata a termine e si concluse con la morte della vittima. I responsabili furono subito individuati ed arrestati. Purtroppo, però, i due sciagurati affermarono che il bambino aveva partecipato attivamente all’omicidio e, perciò, fu tratto immediatamente in arresto e rinchiuso in un carcere minorile di Palermo in attesa del processo.
Incredibilmente, un’esperienza così terribile portava con sé il seme di una nuova possibilità: nella casa di correzione il sogno diventava realtà, il bambino poteva imparare a leggere e scrivere! Nell’anno che vi rimase frequentò la prima elementare e fu promosso in seconda. Quell’anno fu, paradossalmente, il migliore della sua infanzia. Giovannino ritornò dalla Sicilia per la celebrazione del processo, ma questo fu poi rinviato più volte; fu allora rinchiuso in un carcere per adulti, in una cella a lui riservata: qui rimase per molti mesi senza vedere alcuno dei suoi cari. Finalmente il processo fu celebrato e i due stolti confessarono, scagionando definitivamente il bambino.
Aveva, dunque, imparato a leggere ma era tornato a quella vita in cui saperlo fare non gli serviva a molto: dove avrebbe trovato i libri da leggere? Non poteva certo comprarli! La sua vita continuò a scorrere scandita dal duro lavoro e da una serie di eventi: una lunga malattia, un’ insperata guarigione, il matrimonio, la nascita di cinque figli che amò profondamente, la graduale perdita della vista che all’età di circa 75 anni lo rese completamente cieco, costringendolo al buio per 17 anni. Non perse però, neanche per un istante, la voglia di lottare e vivere con dignità e mai si rassegnò all’ignoranza. Dopo il matrimonio iniziò a lavorare in Sila presso i baroni Collice e, successivamente, per la famiglia De Santis. Fu in questo periodo che ebbe l’occasione di leggere molti libri che appartenevano ai figli del padrone dei quali spesso si occupava; leggeva avidamente, imparava rapidamente. Scoprì così la Divina Commedia e se ne innamorò perdutamente. La lesse e rilesse, la studiò, la fece sua. Amava discuterne con chiunque fosse in grado di farlo. Conobbe diverse persone colte con cui mantenne, nonostante le umili mansioni che svolgeva e grazie alla sua sete di conoscenza, una lunga corrispondenza. Tra queste don Luigi Re, fondatore negli anni venti della Casa Alpina di Motta. Il suo più grande dispiacere fu non riuscire ad imparare a memoria tutto il poema: i problemi alla vista lo costrinsero a lasciare a metà il Paradiso. Quasi completamente cieco continuò a lavorare instancabilmente e ad essere d’aiuto a figli e nipoti; l’unica cosa che chiedeva loro in cambio era di leggere per lui; e mai si allontanò dalla sua amata Divina Commedia. Anche quando perse completamente il dono della vista continuò a recitare quei versi a chiunque gli dedicasse un po’ del proprio tempo. Ed era entrata a far parte di lui a tal punto che, quando molto avanti con gli anni perse la lucidità, spesso raccontava dei suoi incontri con il suo amico Dante; recitando il Rosario, con la corona in mano, confondeva l’ Ave Maria con i versi del sommo poeta.



Katia Belmonte, laureata in Chimica, è nata e vive a San Pietro in Guarano (Cs); la foto ritrae suo nonno Giovanni Ferraro.


© 2009 Francesco Capalbo

lunedì 18 maggio 2009

Mario La Cava. Il mestiere di essere uomo

di Grazia La Cava

Mi è stato chiesto di scrivere questa breve nota per testimoniare cosa significhi essere figlia di uno stimato scrittore.
Nel mio caso, però, la cosa più straordinaria ed affascinante da raccontare e condividere credo sia l’aver vissuto per quasi trent’anni accanto all’”uomo” Mario La Cava. Lo scrittore può essere letto e valutato attraverso i suoi scritti; chi ha avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, credo ne sia rimasto completamente affascinato ed incantato dalla sua disarmante semplicità e disponibilità. Chi, come me, ha avuto il privilegio di ricevere il suo affetto paterno ed un’educazione non certo usuale, può solo dispiacersi di non aver saputo cogliere per intero le opportunità e gli innumerevoli stimoli intellettuali che provenivano dall’essere accanto ad un uomo così straordinario e singolare.
La curiosità verso l’animo umano: questa è stata la sua costante peculiarità, e questa sua curiosità lo portava alla ricerca del dialogo con le persone più umili e semplici perché lì trovava grande umanità; ed ascoltava con interesse anche le cose che a noi potevano sembrare banali e prive di significato. Non ascoltava: egli osservava, scrutava, leggeva ciò che le parole non riuscivano a descrivere; e ciò che solo lui era capace di interpretare, lo custodiva come qualcosa di prezioso; e costantemente si nutriva di questo.
Ricordo che la nostra casa, nel periodo della mia infanzia, è stata regolarmente un luogo d’incontro di personaggi che si alternavano e si diversificavano con straordinaria naturalezza: capitava, infatti, che nello stesso giorno si riceveva la visita di uno dei tanti intellettuali che ne erano abituali frequentatori (Seminara, Maganzini, Buttitta, Sciascia, ecc.) e, al tempo stesso, il contadino che ci omaggiava della frutta e degli ortaggi appena raccolti. La straordinarietà dell’”uomo” stava proprio nel porsi nei confronti dell’interlocutore – chiunque egli fosse - in una condizione sempre paritaria senza che il suo status di uomo colto potesse in qualche modo intralciarne il dialogo e sempre con immutato rispetto del pensiero dell’altro. Ognuno, conversando con lui, si sentiva sempre a proprio agio e riusciva a tirar fuori il meglio di sé.
Noi ragazzini abbiamo vissuto un’infanzia nella più totale normalità e, come tutti quelli della nostra età, eravamo distratti da ciò che succedeva fuori dal nostro piccolo-grande mondo di casa. Ma ricordo che le poche volte che rimanevo in casa senza uscire con gli amici capitava proprio quando essi venivano a trovarmi: rimanevano, infatti, per ore a discutere con lui e, si badi bene, per niente disagiati o annoiati; semplicemente ci si era dimenticati del mondo fuori. Ed io non riuscivo a comprendere: non avevo ancora capito che la mia casa era tutto un mondo.
Mi piace pensare che il vero mestiere di mio padre non sia stato quello dello scrittore: la scrittura è stata lo strumento per raccontare ciò che solo lui era in grado di scrutare e intendere dell’animo umano.


Bovalino, 16 Maggio 2009




Nota di Francesco Capalbo

Scritto appositamente per “Mille storie,mille memorie”, l’articolo è di Grazia La Cava, figlia di Mario La Cava che al pari di Corrado Alvaro, Leonida Repaci, Fortunato Seminara e Saverio Strati è riconosciuto dalla critica come uno dei maggiori scrittori calabresi.
Nato a Bovalino l’11 settembre del 1908, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, si dedicò per intero alla scrittura con l’unico obiettivo “di dar voce ai più umili” della nostra terra.
La sua prima opera fu “Il matrimonio di Caterina” del 1932, dalla quale il regista Luigi Comencini, che accumunava Mario La Cava a Flaubert, trasse un film per la televisione .

Altre opere furono: “Caratteri” (1939), “I misteri della Calabria” (1952), “Colloqui con Antonuzza”(1954), “Le Memorie del vecchio maresciallo” (1958), “Mimì Cafiero” (1959), “Vita di Stefano” (1962), “Viaggio in Israele” (1967), “Una storia d’amore” (1973), “I fatti di Casignana” (1974), “La ragazza del vicolo scuro” (1977), “Terra dura” (1980), “Viaggio in Lucania” (1980), ”Viaggio in Egitto e altre storie di Emigranti” (1986), “Tre racconti”(1987), “Una storia a Siena”, (1988), “Opere teatrali” (1988), “Ritorno di Perri”(1993).
Elio Vittorini, che nel 1953 curò la presentazione del volume “Caratteri”, evidenziò come Mario La Cava conoscesse “il gusto dell’imitazione dei classici e lo studio naturalistico del prossimo”.
Per Leonardo Sciascia, lo scrittore calabrese costituiva invece un modello da imitare per quanto riguardava la semplicità, l’essenzialità e la rapidità della sua scrittura.
Mario La Cava morì il 16 novembre del 1988.
Pubblicando l’articolo della figlia Grazia vogliamo proporre lo scrittore bovalinese come esempio cui ispirarci per la rinascita culturale, umana e sociale della Calabria, di cui siamo in molti ad avvertirne il pressante bisogno.
La lettura delle sue opere potrebbe dispiegare a nostro avviso effetti positivi sull’animo di noi calabresi proprio mentre, con una sfrontatezza inusitata, si dà credito a modelli e comportamenti destinati a perpetuare lo stato di sofferenza della nostra terra. La Calabria è abitata in gran parte da gente onesta e laboriosa; ad essa Mario La Cava intendeva dar voce. Noi, ricordandolo con le parole della figlia Grazia, ne vogliamo far conoscere la nobile arte, poiché siamo consapevoli di navigare in mari tempestosi, nei quali venti infidi sembrano destinati a devastare le nostre fragili vele.



Le foto sono pubblicate per gentile concessione di Grazia La Cava.
La seconda ritrae lo scrittore da solo; mentre nella prima, del 1975, è in compagnia della sua famiglia. La figlia Grazia, seduta nella seconda fila, è la terza da sinistra.



© 2009 Francesco Capalbo

martedì 12 maggio 2009

Elogio della lentezza

di Francesco Capalbo
Mi è stato chiesto da più parti cosa voglia mai significare la foto pubblicata il 29 aprile sotto il titolo di “Lettura e lentezza”.
L’immagine esprime più di mille parole la missione che il blog si è prefissata: intende mostrare come anche nel Web sia possibile fare cultura in maniera non compulsiva. A nostro avviso i post di Mille Storie, Mille Memorie, di volta in volta proposti, vanno infatti assimilati con la stessa lentezza con la quale il signore ritratto dalla foto leggeva i libri, in mezzo ai quali viveva.
Domenico Martorelli cercava in maniera originale di dare risposte agli interrogativi che ponevano le grandi trasformazioni come il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, il viaggio dell’uomo sulla luna, la legge sul divorzio… perciò curiosava nei vecchi tomi che provenivano dalla biblioteca del farmacista sansostese don Luigi La Cava.
Leggeva poche pagine al giorno, lentamente, poiché solo la lentezza sembrava in grado di compiere un inaspettato miracolo: filosofie e riflessioni travalicavano con passi ovattati, gli angusti confini della pagina scritta e lo accompagnavano nelle sue lunghe e laboriose giornate da contadino.

In questa foto degli anni novanta Domenico Martorelli è il primo da sinistra ed è ritratto in compagnia del fratello Francesco e della sorella Caterina.
© 2009 Francesco Capalbo

venerdì 8 maggio 2009

Il recupero delle ville rurali nel territorio di Rossano: in un lavoro di Tiziana Cerbino una importante proposta di dibattito politico e culturale



di Tiziana Cerbino

Non si può costruire il futuro o semplicemente comprendere il presente se mancano le basi radicate nel passato. Scoprire le proprie radici non è solo un’esplicita dichiarazione di responsabilità culturale, ma significa altresì affermare il principio psicologico per il quale la conoscenza parte dal vicino e dal familiare, per non smarrire le tracce, per ritrovare se stessi. E’ innegabile, infatti, che attraverso lo studio e l’analisi di un monumento o di un qualsiasi edificio si può conoscere meglio il tessuto economico-culturale che vi ha gravitato intorno,perché la storia degli agglomerati urbani è essenzialmente “storia di pietre” ed è certamente più attendibile ciò che si ricava dall’analisi diretta del costruito che non dai documenti spesso lacunosi, ed a volte contraddittori. Le ville rurali disseminate nel paesaggio agrario di Rossano sono numerosissime. Concentrate soprattutto lungo la fascia costiera e nell’immediato entroterra, rappresentano delle emergenze suggestive in quanto presenze architettoniche e testimonianze socio-economiche, evocanti un passato ricco di storia e di cultura e simboli di una organizzazione del territorio che ormai è purtroppo scomparsa. Esse rappresentano dei veri e propri monumenti della civiltà contadina, e attestano con la loro presenza,il modo di porsi dell’uomo rispetto all’ambiente,le sue capacità organizzative e produttive. Per questa ragione, i manufatti rurali, pur conservando la loro eleganza e signorilità, quando assumono una dimensione abbastanza consistente, circondandosi di vari corpi di fabbrica, sembra che vengano ad assumere la configurazione di vere e proprie masserie. Forse in nessun altro luogo più che nelle ville di campagna, può cogliersi il duplice volto della società rossanese: in esse,infatti, è impressa la storia umile e mai scritta di un popolo contadino, di un popolo artigiano ed operaio, accanto a quella più accreditata e certamente più conosciuta dei potenti e delle famiglie feudatarie che hanno occupato un posto rilevante nella storia di Rossano. Ma quel rapporto così faticosamente costruito tra il centro abitato e l’ambiente, tra la città e la campagna si è irreversibilmente spezzato. Negli ultimi decenni del secolo scorso, la gente contadina ha lasciato le valli, le colline ed anche le campagne, quei luoghi un tempo pullulanti di vita ora sono taciturni e silenziosi, gli strumenti da lavoro abbandonati, le case rimaste vuote e in attesa dell’azione corrosiva del tempo. Da qui l’urgenza di un recupero impellente per un’azione di salvaguardia di ciò che ormai resta di quei frammenti di vita vissuta. E’ sicuramente compito nostro, della società nelle sue varie articolazioni, ridare linfa vitale e presenza umana a quelle mura, per far sì che la memoria storica possa essere veramente custode del passato, da cui poi poter progettare un futuro migliore.

Tiziana Cerbino è docente di lingua e letteratura italiana presso l’Istituto Tecnico Industriale di Rossano.
E’ autrice del volume: “Ville rurali nel territorio di Rossano” edito dalla Casa Editrice Studio Zeta nel 1997.
Il suo indirizzo di posta elettronica è il seguente: tizicerbino@virgilio.it







© Francesco Capalbo

lunedì 4 maggio 2009

Su quattro zampe con le ali

di Francesco Marasco

Quando la maestra della scuola elementare chiedeva in classe, ad ognuno, cosa avesse voluto fare da grande, i miei compagni, dopo una breve pausa di riflessione rispondevano decisi:"Io il dottore!", " Io il meccanico!", " Io l'avvocato!"... Io, invece, non rispondevo mai, diventavo muto, ma avrei voluto fare l'aviatore. Mi vergognavo di dirlo perché non intendevo esattamente diventare un pilota d'aerei, ma di un asinello con le ali. Immaginavo il ciuco portarmi in groppa oltre il volo degli uccelli, nel vento alto, tra le nuvole bianche, mantenendomi aggrappato con le mani alle sue orecchie lunghe lunghe, come se fossero briglie. Insieme ci saremmo divertiti da matti a giocare tra le stelle e attorno alla luna, a nascondino. Finalmente potevo ammirare da vicino quello che con stupore guardavo tutti i giorni a bocca aperta e con il naso all'insù. La notte nel lettone della nonna con gli occhi chiusi, prima di addormentarmi, solo lui mi era di conforto. Pensavo cose fantastiche, lasciandomi lambire da sogni che magicamente si trasformavano, regalandomi meraviglia e stupore: tirando la sua coda, l'asinello dal di dietro, buttava tantissime caramelle colorate che cadevano giù nella piazza del paese per la gioia dei bimbi. Volevo che il somarello fosse quello del rude legnaiolo, vicino di casa, che in prossimità della stalla, al ritorno da boschi lontani e sotto il peso schiacciante del carico di legna, emetteva ragli di dolore e camminava barcollante. Proprio quell'asino dagli occhi bagnati di rassegnazione, legato al muro per la cavezza e che ciondolava la testa frustando via con la sua stessa coda le mosche dal ventre ansimante, volevo sottrarre al tormento del suo padrone. Se quel giorno in classe avessi spiegato tutto ciò, avrebbero riso di me per l'intero anno e magari, senza pensarci più di tanto, mi avrebbero "appioppato" addosso un nomignolo del tipo "asinello vola - vola". Non mi conveniva! E cosi' quest´intima vocazione la tenni segreta e gelosamente custodita dentro me, provocando tanta stizza nella maestra, che non si capacitava del fatto che stessi sempre zitto su quest'argomento, senza darle la benché minima soddisfazione di una risposta. Fu durante una delle tante bacchettate sulle mani, umiliato davanti a tutti, che la maestra istericamente mi chiamò "bestia" e mi trasferì insieme con altri nel "recinto dei somari", tra gli ultimi banchi in fondo all'aula, credendo di farmi dispetto. La finestra era vicina e catturava il mio sguardo: potevo sbirciare la cima frondosa della quercia con le ghiande e i nidi, oppure smarrirmi tra le nuvole che si dilatavano per poi disperdersi oltre i monti ancora innevati. Lo spettacolo bizzarro del cielo primaverile era ammaliante e si popolava di colori e suggestioni nuove ad ogni soffio di vento. Era una meraviglia che mi catturava in un gioco d´irresistibile incanto. Ma lei mi sorprendeva distratto e indifferente, con gli occhi puntati fuori a vagheggiare col pensiero. "In piedi e faccia al muro nell'angolo e guai se ti muovi!" ordinava la tiranna e lo spettacolo esterno finiva con le lacrime che ticchettavano in silenzio sulle scarpe. Per lei era difficile capire che la fantasia è forza inattaccabile, indistruttibile, specie nei bambini; energia invisibile e creativa che rende invulnerabili, che può abbattere qualsiasi muro o barriera. Le sue grida rimbombavano tra le pareti dell'aula e, insieme a noi, tremavano i vetri delle finestre; il gesso raggelato cadeva giù sul pavimento frantumandosi in cento pezzi come chicchi di grandine. Le parole e i numeri scritti sulla lavagna sembravano rabbrividire anch'essi, sfarinandosi in una pioggerellina di neve. Mi dispiace che non abbia saputo capirmi; avevo bisogno di essere accarezzato, di avvertire di essere amato da lei e forse, il mio "mestiere" da grande, glielo avrei pure rivelato, visto che ci teneva tanto. Ma al suo posto ora c'era l'asinello che non mi negava mai la sua attenzione e un po' del suo tempo. Ogni notte, in punta di zoccoli e senza far rumore, entrava nella mia stanza dalla scala in legno del soffitto e, posando la testa sul cuscino, aspettava una carezza sul soffice pelo delle sue lunghe orecchie. La nonna, col respiro pesante, continuava indisturbata a sonnecchiare sotto la sua ombra magicamente ingrandita sulla parete. La notte in cui ci fu una stupefacente luna piena che imbiancava la terra, il somarello si mise a parlare con dolcezza, sussurrandomi di saltargli in groppa per fare un giretto. Partimmo spensierati e giocammo nel cielo blu, incantevolmente sgombro di nuvole e pieno di lucciole, fino a quando la nonna, al mattino, mi scosse più volte rimproverandomi di aver fatto la pipì a letto. La maestra mi stava sempre addosso, indispettita, e ora non solo bacchettate ma mi prendeva anche per le orecchie, alzandomi da terra, solo perché sbagliai, nel ripeterla, la tabellina del nove. Ma non mi faceva più paura: il suo viso orripilante e la sua bocca senza labbra e sformata da un ghigno, svanivano nel chiudere gli occhi. Avevo altro da sognare! Al sorgere del sole però, con rammarico, dovevo aprirli e scoprire l'amara realtà. Io perdevo a poco a poco il gusto del risveglio e preferivo il buio della notte alla luce del giorno. Lei era lì in cattedra, austera come sempre, ad aspettarmi vestita d'abbagliante autorità. " Devo farmi furbo ed essere deciso", andavo ripetendo a me stesso, e anche la voce amica mi suggeriva di non sopportare perché era tempo di reagire, di escogitare qualcosa. Imparai presto a trattenere le lacrime e a guardare la maestra in modo impertinente e sfrontato, anche quando si accaniva con la bacchetta o mi puntava minacciosa l'indice contro. Il grembiule in disordine, il colletto fuori posto, il nastro non legato a fiocco; la scarsa pulizia delle mani messe in rassegna sui banchi per l´ispezione delle unghie, erano altrettanti appigli per possibili punizioni. Pur di non offrirle il pretesto per un castigo, imparai a rosicchiare le unghie appena crescevano e in seguito non davo loro nemmeno il tempo di spuntare. Ciò nonostante il giudizio che dava sulla pulizia delle mani risultava negativo. Le dita erano valutate indecenti e schifose e paragonate a vermi di terra che avevano la qualità specifica di crearle un forte disgusto e di rovinarle il già poco appetito che aveva per pranzo. Quella volta che scostai la mano di scatto, schivando la rabbiosa traiettoria del colpo, la bacchetta batté sulla gonna di lei in direzione del ginocchio, producendo un tonfo sordo come il rumore di un battipanni. Ebbi l'ardire e l'ingenua impudenza di deliziarmene visibilmente, sbuffandole una risata in faccia di tutto gusto. Quel giorno la bacchetta, finalmente, aveva cambiato musica e recapito! Tra i primi banchi timidi principi di riso trattenuti dalla paura che preludeva il dopo... Nel "reparto somari", il mio, in fondo all'aula, sembrava non aspettassero altro: ragli e nitriti a trentadue denti! Apriti cielo! Andò su tutte le furie come mai si era vista. Digrignò i denti e avvampò in viso, più per la rabbia della burla subita che per il dolore al ginocchio, e la collera le fece rizzare i capelli che diventarono ispidi come gli aculei di un porcospino. Il finimondo era scoppiato! Tutti in piedi: entrano il Direttore, con la gamba sciancata, e la pancia del Vice dietro; arrivano le maestre delle altre classi gracidanti come ranocchie; la Segretaria con la faccia da tacchino straziato e la bidella secca come una canna, al seguito. Tutti con il naso turato dalle dita e la faccia brutta e schifata. Io e " Lenticchia", quella con gli occhiali spessi, accovacciata al primo banco, fummo accompagnati a casa: lei, con la cacca che le arrivava sin dentro i calzettoni bianchi, camminava a piccoli passi, in punta di piedi, dignitosamente composta, trascinata a strattoni dalla bidella che imprecava, sollevando gli occhi al cielo come in preda ad uno spasimo. Io, con la testa dolorante, avevo incassato un altro colpo di bacchetta. Sul capo questa volta! "Hai la testa dura come un somaro!" mi aveva apostrofato la maestra. "Ah...ahi la testa!" mugolavo. A casa nessuno credeva alle mie ragioni e ricevetti il resto. In silenzio. Alla povera "Lenticchia", naturalmente fu cambiato il soprannome. Anche quella notte era come se fosse giorno e, felici come una pasqua, andammo, con il mio amico, lontano lontano, dove mai avevamo osato prima. L'aria era ferma e calda. Scorsi dall'alto, piccoli piccoli, l'orto con i fichi d'india, i limoni e la lunga siepe di rosmarino che li delimitava; le tegole e il comignolo ancora fumante di casa mia e la scuola col tetto nero di catrame. La maestra è volata all'altro mondo senza ali ma con la bacchetta in mano, convinta di essere stata una buona insegnante, meritevole per questo di un posto in Paradiso. Non so perché, ma a volte la immagino con la bacchetta tra le gambe come la scopa della befana, mentre brancola e piroetta irrequieta nel cielo sopra la scuola. Povera la mia maestra! E' andata via senza conoscere il mio segreto né tantomeno sapere cosa faccio, ora che sono grande. . . Tu sei la prima persona cui rivelo ciò e ti confesso un altro segreto: ho veramente paura di volare con l'aereo; continuo a farlo con l'asinello della mia infanzia, visto che soffro le vertigini solo guardando la punta delle mie scarpe. Eccomi! Oggi io sono il risultato di una somma d'esperienze vissute. Anche fantastiche. La vita mi ha insegnato a soffrire, a ridere, ad odiare, ma anche ad amare ed a sognare, ed ogni cosa, anche quella che sembra più piccola ed insignificante, lo è solo apparentemente perché lascia la sua inevitabile traccia su di noi. E' per questo che mi ritrovo tanta voglia di raccontarti queste cose scrivendoti. Se vuoi venire con me, salta in groppa all'asinello con le ali, c'è posto anche per te!





La foto è stata scattata nell'anno scolastico 1968 - 69 davanti all'ingresso della Scuola Elementare di San Sosti. Essa ritrae la classe quinta elementare mista, della quale l'autore del racconto breve ( che ora insegna lingua e letteratura italiana a Treviso) faceva parte.
Al centro in alto sono distinguibili l'amata maestra Aragona Nucaro Pina ed il Direttore Didattico Antonio Intrieri e subito sotto, da sinistra verso destra, l'intero gruppo di alunni: Rimola Francesco, Vitale Vincenzo, De Marco Vincenzo, Borrelli Mario, Capalbo Francesco (ideatore del Blog), Marasco Francesco (autore del racconto Breve), Veltri Caterina, Guaglianone Maria Luisa, Tiesi Carmela, Esposito Nicola, Tripoli Giuseppina, Bonanno Gilda; inginocchiato: Pietromica Ciriaco.





© 2009 Francesco Capalbo








venerdì 1 maggio 2009

Dell'emigrazione e della dignità del lavoro manuale

di Francesco Capalbo

Non c’è occasione migliore della Festa del 1° Maggio per narrare una storia di emigrazione che ebbe il suo triste epilogo nell’aprile del 1892.
Mi rendo conto che ci è dato di vivere in una epoca in cui le persone non amano sentire il racconto delle storie passate, specialmente se in tali vicende i protagonisti sono rappresentati con gli stessi abiti laceri di quanti ai nostri giorni invocano aiuto varcando i mari delle bulimiche società occidentali. Forse abbiamo rimosso il ricordo di quando i nostri nonni erano descritti come disperati, per non essere costretti ad ammettere che si tratta della stessa disperazione che troviamo incarnata sul viso dei lavoratori stranieri, che abitano i margini delle nostre periferie.
Siamo un popolo che ha in odio non solo la memoria, ma anche le immagini e gli odori che emano le nuove forme di povertà. Viviamo in uno stato di narcolessia collettiva, indotta da quanti esaltano solo i volti raffiguranti la ricchezza e i profumi che effondono le veline, sacerdotesse delle moderne ostentazioni.
E’ utile pertanto ricordare, proprio oggi che è il Primo Maggio, come la nostra ricchezza sia stata generata dal sudore degli emigranti, maleodorante quanto si voglia, ma dignitoso e pertanto simile a quello degli stranieri che oggi lavorano in Italia.
Francesco Cauteruccio, di cui si parlerà di qui a poco, per molto tempo visse a San Sosti, anche se era nato a Buonvicino il 10 marzo del 1843. Figlio di Ciriaco e di Marianna Amoroso, faceva il fabbro ferraio, così come tutti i membri della sua famiglia. Giovanissimo emigrò dapprima a Valencia in Spagna, poi nel 1887 a San Francisco di California e da lì a Montevideo, città nella quale lo ritrae,con tanto di bastone e di bombetta posata sulla colonna, la foto scattata nel Nuevo Estudio Fotografico Dolce Hnos, in Calle Ibicuy n°85, e pubblicata a corredo della storia. Nella stessa foto l’emigrante mette in mostra con orgoglio, una decorazione ottenuta per aver partecipato nel 1870 alla presa di Porta Pia.
Nel suo peregrinare per il mondo fu accompagnato dalla moglie Rosa Vidiri, che gli fu accanto anche nell’ultima tappa del viaggio: Campinas, città dello Stato di San Paolo del Brasile, già all’epoca importante mercato del caffé e famosa per le industrie metalmeccaniche ed alimentari, nelle quali molti emigranti italiani prestavano la loro opera.
Francesco Cauteruccio morì di febbre gialla, una malattia endemica per quelle terre, il 10 aprile del 1892. Qui di seguito è pubblicata la lettera, dettata al suo datore di lavoro, Cesare Caversazzi, dalla moglie Rosa Vidiri, con la quale venne comunicata ai familiari rimasti in Calabria, la morte del congiunto.
Essa costituisce un frammento delle “mille memorie” alle quali abbiamo dedicato il nostro Blog, che oggi ha la presunzione di parlare sia dell’emigrazione, che della dignità del lavoro manuale.

***

Campinas, il 14 Aprile 1892

Caro cognato Giovanni,
Come lo vedrete nella lettera che vi scrive il signor Cesare Caversazzi, mio padrone, io ho avuto l’infelicità di perdere il mio marito il giorno 10; è morto della febbre gialla, quella malattia di cui avete sentito parlare tante volte.
Non so davvero come contarvi tutta la mia disgrazia e per questo ho domandato al padrone di farlo.
Dopo che siamo arrivati qui in Brasile,siamo sempre stati nella stessa casa, io impiegata nei servizi di casa e lui, andando tutti i giorni in città per lavorare nel suo ufficio di fabbro ferraio.
Siamo in campagna, presso della città e qui non c’era pericolo di venire la febbre.
I padroni le dicevano sempre e io lo pregavo tutti i giorni di rimanere qui, ma voi conoscete il vostro fratello, lui non ci ha ascoltato, perché diceva sempre che non poteva lasciare il suo ufficio,che aveva un buon guadagno, di 8 lire al giorno e voleva approfittarne; il suo padrone lo voleva molto bene e diceva anche a lui di non aver paura.
Tante volte le ho detto di lasciare di restare qui, dove anch’io ho una buona mesata, dove c’era tutto il necessario per lui,la casa e lo mantenimento senza avere da spendere un soldo. E’ stata la volontà di Dio che l’ha chiamato da Lui; io sono rimasta sola, poveretta e adesso penso sempre a ritornarmi al paese; i padroni sono molto buoni, volevano molto bene al mio povero Francesco, e mi hanno promesso di aiutarmi a fare il viaggio.
Gli ultimi giorni che lui era qui aveva mandato in Italia il denaro per pagare il debito a Benigno Mele, ed era felice di averlo fatto; non so come comprendere che Dio ha voluto; mi metto nelle sue mani divine, sono rimasta sola, il mio povero Francesco se n’è andato da lui!
Ditelo, che prego a mia madre, che ho patito questa disgrazia e che non me ne posso consolare.
Quanto ho sofferto, Dio mio!
In cinque giorni è stato ammalato ed è morto.
Cerco di farmi coraggio perché adesso ho da curare io stessa dalla mia vita e per ciò bisogna lavorare.
Non ho mai creduto che avrei da mandarmi questa brutta notizia di qui, avevamo fatto gli ultimi giorni tanti belli progetti per il nostro ritorno presso dei parenti e adesso è tutto finito. Addio caro cognato, pregate tutti per lui che è stato sempre buono e coraggioso.
Vostra cognata
Vidiri Rosa




© 2009 Francesco Capalbo