mercoledì 20 maggio 2009

Un sogno realizzato a caro prezzo




di Katia Belmonte

“Seguimi un po’, vediamo se ricordo ancora tutto bene...”, così esordiva mio nonno quando, da bambina, andavo a fargli visita. Mi consegnava un volume consunto, dalle pagine ingiallite, come se fosse una reliquia e declamava i versi di Dante con una tale passione da lasciarmi ogni volta stupefatta ed affascinata. Mi sembrava incredibile il fatto che un uomo di origini umili, che per la maggior parte della sua vita non aveva fatto altro che lavorare la terra e badare agli animali, fosse capace di recitare, all’età di ottant’anni, i versi della Divina Commedia senza sbagliare una parola e di farlo con una tale enfasi, con un tale coinvolgimento emotivo da emozionarmi ogni volta. E come era bravo a spiegare e commentare quei versi!
Ogni tanto ripenso a lui ed ogni volta mi torna in mente la sua storia, una storia che vorrei non andasse perduta.
Giovanni Ferraro nacque il due gennaio del 1900 in un paesino della pre-Sila da una famiglia di umili origini. Era ancora piccolo quando si trasferì a Corigliano Calabro, dove suo padre aveva trovato lavoro alle dipendenze di un proprietario terriero del luogo. Era un bambino che si distingueva per una spiccata intelligenza ed una ferrea volontà; all’età di nove anni Giovannino, così lo chiamavano tutti, aiutava suo padre nel lavoro dei campi, ma il suo più grande desiderio era quello di imparare a leggere e scrivere, desiderio che aveva tanto il sapore di un sogno irrealizzabile: la sua famiglia non aveva assolutamente i mezzi per dargli un’istruzione. Ma, si sa, il sentiero della vita può assumere a volte forme così contorte…e condurre in luoghi inimmaginabili! Ed il corso della vita di Giovannino cambiò decisamente direzione. Un giorno egli si trovò ad assistere, suo malgrado, ad una discussione tra due braccianti che lavoravano insieme a suo padre: i due stavano progettando di rapinare un uomo del luogo. Resisi conto che il bambino aveva udito tutto, lo costrinsero a seguirli nell’impresa, minacciandolo di morte nel caso in cui avesse raccontato il fattaccio a qualcuno. Giovannino era terrorizzato, ma molto più sveglio ed astuto dei due ladri: nel bel mezzo di un campo coltivato a mandarini riuscì a sfuggir loro con uno stratagemma. La rapina fu comunque portata a termine e si concluse con la morte della vittima. I responsabili furono subito individuati ed arrestati. Purtroppo, però, i due sciagurati affermarono che il bambino aveva partecipato attivamente all’omicidio e, perciò, fu tratto immediatamente in arresto e rinchiuso in un carcere minorile di Palermo in attesa del processo.
Incredibilmente, un’esperienza così terribile portava con sé il seme di una nuova possibilità: nella casa di correzione il sogno diventava realtà, il bambino poteva imparare a leggere e scrivere! Nell’anno che vi rimase frequentò la prima elementare e fu promosso in seconda. Quell’anno fu, paradossalmente, il migliore della sua infanzia. Giovannino ritornò dalla Sicilia per la celebrazione del processo, ma questo fu poi rinviato più volte; fu allora rinchiuso in un carcere per adulti, in una cella a lui riservata: qui rimase per molti mesi senza vedere alcuno dei suoi cari. Finalmente il processo fu celebrato e i due stolti confessarono, scagionando definitivamente il bambino.
Aveva, dunque, imparato a leggere ma era tornato a quella vita in cui saperlo fare non gli serviva a molto: dove avrebbe trovato i libri da leggere? Non poteva certo comprarli! La sua vita continuò a scorrere scandita dal duro lavoro e da una serie di eventi: una lunga malattia, un’ insperata guarigione, il matrimonio, la nascita di cinque figli che amò profondamente, la graduale perdita della vista che all’età di circa 75 anni lo rese completamente cieco, costringendolo al buio per 17 anni. Non perse però, neanche per un istante, la voglia di lottare e vivere con dignità e mai si rassegnò all’ignoranza. Dopo il matrimonio iniziò a lavorare in Sila presso i baroni Collice e, successivamente, per la famiglia De Santis. Fu in questo periodo che ebbe l’occasione di leggere molti libri che appartenevano ai figli del padrone dei quali spesso si occupava; leggeva avidamente, imparava rapidamente. Scoprì così la Divina Commedia e se ne innamorò perdutamente. La lesse e rilesse, la studiò, la fece sua. Amava discuterne con chiunque fosse in grado di farlo. Conobbe diverse persone colte con cui mantenne, nonostante le umili mansioni che svolgeva e grazie alla sua sete di conoscenza, una lunga corrispondenza. Tra queste don Luigi Re, fondatore negli anni venti della Casa Alpina di Motta. Il suo più grande dispiacere fu non riuscire ad imparare a memoria tutto il poema: i problemi alla vista lo costrinsero a lasciare a metà il Paradiso. Quasi completamente cieco continuò a lavorare instancabilmente e ad essere d’aiuto a figli e nipoti; l’unica cosa che chiedeva loro in cambio era di leggere per lui; e mai si allontanò dalla sua amata Divina Commedia. Anche quando perse completamente il dono della vista continuò a recitare quei versi a chiunque gli dedicasse un po’ del proprio tempo. Ed era entrata a far parte di lui a tal punto che, quando molto avanti con gli anni perse la lucidità, spesso raccontava dei suoi incontri con il suo amico Dante; recitando il Rosario, con la corona in mano, confondeva l’ Ave Maria con i versi del sommo poeta.



Katia Belmonte, laureata in Chimica, è nata e vive a San Pietro in Guarano (Cs); la foto ritrae suo nonno Giovanni Ferraro.


© 2009 Francesco Capalbo