martedì 3 dicembre 2019

L'Appennino interno ed il diritto alla felicità



di Francesco Capalbo

Le elezioni regionali calabresi si avvicinano e le visite elettorali saranno più frequenti.
La prima domenica di questo mite dicembre ha visitato San Sosti il consigliere del PD Giuseppe Aieta di Cetraro.
Nel Municipio ha presentato il suo sudato lavoro: “Vie d’uscita”. Un capitolo è titolato “Il diritto alla felicità”.
Ci ha intrattenuto amabilmente, con il suo eloquio didattico, sulla bellezza delle città parlandoci della cintura “green” di Londra.
Ben vengano altri come lui a presentare il loro pensiero strategico e la loro visione.
Abbiamo il dovere di accogliere tutti.
Ben vengano anche i leghisti a parlare dei loro progetti.
La nostra è una landa che, da tempi remoti ha sempre accolto, incluso. È terra basiliana!
Dopo averli ascoltati con rispetto e dopo aver loro offerto “pane e sale”, congediamoli.  Tratteniamo dalle loro parole solo quello che è veramente utile per noi.
Ognuno ha diritto alla propria felicità. La nostra è custodita dagli spiriti buoni che si sono sempre rispecchiati nelle acque del fiume Rosa e che necessitano di essere richiamati in vita.
Le loro azioni rappresentavano un' amalgama  di preziosi talenti: la precisione dei sarti, il ticchettio dei ciabattini, la perizia dei falegnami, la forza dei fabbri, la saggezza dei contadini, il vigore dei boscaioli, il passo peregrino dei pastori e l’umiltà dei monaci basiliani.


domenica 21 luglio 2019

Don Giovanni nella valle dell'Esaro



di Francesco Capalbo


Nell'estate del 1987 Giorgio Taborelli, allievo di Fernand Braudel, in occasione del duecentesimo anniversario del “Don Giovanni” di Mozart, iniziò gli studi che lo avrebbero portato alla realizzazione di un monumentale lavoro, in quattro volumi, sulla vita di don Juan Tenorio y Rodriguez de Urtago.
Lo scrittore milanese, storico della cultura, fu per un trentennio l’anima degli Amici della Scala e amò particolarmente la figura di don Giovanni che da secoli incarna l’archetipo dell’uomo mediterraneo, sempre avvolto in una coltre di ebbrezza sensuale.
Il don Giovanni frutto della creazione artistica di Taborelli è un individuo che si comporta come un principe e come un brigante, cavalca la vita e la doma con la gioia di viverla; è un viveur democratico: monta tutte le donne con eguale ardore, siano esse bianche o nere, belle o brutte, dritte o gobbe, grinzose o gonfie.
La sua morale non ammette un Dio che abbia dato al mondo la facoltà di amare, se prova poi piacere nel castigare per una possibilità che lui stesso ha concesso. Ad un Dio che soffoca il corpo, preferisce gli dei licenziosi di Lucrezio.
La sua esistenza è una continua invocazione rivolta al Signore dell’orgasmo, al Dio delle alcove “che avrebbe potuto darci figli accoppiandoci nello starnuto e nel singhiozzo ed invece ha inventato la schiuma della carne”.
La riconoscenza per questa sacra essenza è totale:” Tu sia lodato per quante fanciulle hai fatto belle e vendemmiato dalla vulva di Eva, come grappoli di nettare nella vigna dei secoli, come favi di miele nei giardini dell’Eden, come cesti di lume nell'azzurro del crepuscolo e come prati di viole allo stupore dei ragazzi. Tu sia lodato per le loro mammelle, dove il latte che non c’è è dolce per la bocca dell’uomo quanto quello che cola; tu sia lodato per le loro coppie di gambe e di mani, di occhi e di natiche. Ma tre volte santo per ciò che in loro è unico, per il cuore e la bocca, per il ventre e la schiena, per il sesso che tutte queste meraviglie ha dintorno e tutte le governa con il ritmo possente dei suoi mesi”.

***

Nel primo dei volumi della quadrilogia: “Il giardino dei melograni”, pubblicato nel 2006 dalla casa editrice Ponte alle Grazie, don Juan Tenorio racconta in forma autobiografica gli anni che vanno dal 1598 al 1602.
Egli è un nobile di casata spagnola che, rimasto orfano, è stato allevato a Siviglia da un notaio e da un moro, abile istitutore. Uno zio è vescovo influente alla corte di Madrid, un altro è capitano del vicereame di Napoli.
Ha appena quattordici anni don Juan quando sulla nave di un mercante catalano, entra col suo moro, nel porto di Napoli, città nobilissima e popolosa, la più grande e festosa della corte di Spagna.
 Il virgulto dei Tenorio avrebbe voluto perlustrarla in lungo ed in largo, ma altre esplorazioni lo attendono.
Scaricati i bagagli, è costretto a raggiungere Posillipo, ospite gradito della bella e ardente donna Laura, marchesa di Taurano, in gioventù amica di sua madre.
La buona sorte lo accompagna nel suo vorticoso incedere: il conte di Avellino e lo zio capitano lo presentano alla corte del viceré don Francisco de Castro, che lo iscrive nella nobiltà dell’antica città di Capua e gli assegna la terza parte della Commenda dell’Abbazia di Acquaformosa nell'alta Calabria.
Con una rendita ed un grado militare, don Juan deve per forza di cose avere una truppa e pertanto viene mandato a comandare quella acquartierata nel Castello di Altomonte, paese circondato da popolazioni di etnia albanese, in eterna rivolta.
L’ordine vicereale è controfirmato dai 28 componenti della Casa dei Sanseverini, signori di quei luoghi. Ad Altomonte l’imberbe spagnolo assumerà la luogotenenza della truppa come alter ego del Principe di Bisignano.

***

Otto sono i mesi che Giorgio Taborelli fa trascorrere a don Juan nel castello di Altomonte.
 Il giovane non ha particolare propensione per il comando, ma tutte le incombenze vengono assolte con equilibrio dal suo moro.  Con le popolazioni mantiene buoni rapporti; spesso nel visitarle si ferma davanti a povere stamberghe e senza arrecare disturbo regala a chi le abita pane e vino.
Nutre rispetto per i ribelli albanesi in quanto ritiene che facciano parte di un popolo nobile ed antico, non mite, ma capace di fedeltà alle proprie idee.
È la caccia la sua vera passione e lui l’asseconda tra i boschi di Altomonte, di Lungro e di Acquaformosa spingendosi sempre più in alto, fino a lambire le sommità innevate della Mula.
Parte in carovana, con bandiere e tamburini, con i muli carichi di barili di vino e di acqua e con le casse ricolme di pane. Torna dopo notti di bivacco passate al freddo, con pelli di lupo che benignamente regala ai frati Domenicani di Altomonte per le spose povere e incinte.
 La sua munificenza nei confronti delle donne è pari al desiderio impetuoso che prova per esse.
Quando il peggio dell’inverno è ormai alle spalle, don Juan sente di aver portato a termine la sua missione: l’ordine nei dintorni di Altomonte sembra ristabilito. Da molti giorni non si verificano più assalti a casali né incendi di borghi.
 A primavera un dispaccio del Principe di Bisignano lo invita a raggiungere San Sosti, un paese nelle vicinanze del Castello per partecipare, in rappresentanza dei Sanseverini, alla prima tosa delle pecore e ad uno strano rito arcaico che in quel luogo si celebra, una festa che ha per protagonisti i mesi dell’anno.

***

A San Sosti don Giovanni arriva con due sergenti, quattro servi, trenta soldati. In testa le sue insegne e quelle del Principe di Bisignano.
Alle porte del paese assaggia il pane, il sale ed il vino che gli anziani del luogo gli portano in segno di rispetto e si acquartiera ai piedi delle montagne ancora ricoperte di neve.
Mentre i suoi soldati montano il padiglione, egli risale la gola del Rose e si inerpica per un sentiero che lo porta al Pettoruto, ove si raccoglie in preghiera ai piedi di una Madonna dai tratti irregolari che è la negazione della voluttà, ma che ha l’incarnato di un volto femmineo e pertanto è degna di venerazione.
In paese, con l’aiuto del sempre presente moro, adempie alle faccende del suo mandato: consiglia i capi dei fuochi, riceve monaci ed abati, nobili e popolani, dirime controversie, incoraggia, punisce e premia.
Tutt’intorno è pronto per la tosa: i teli che devono accogliere la lana per farne delle balle, le funi per legarle, i sigilli. Dodici tosatori lavoreranno dall’alba al crepuscolo e saranno sostituiti solo quando cadranno sfiniti da tanto travaglio.
 Fornaci ardenti scavate nella terra infornano pecore e pane.  Una girandola di odori invitanti si mescola con quello acre e ripugnante del sangue poiché, oltre alla tosa delle pecore, in quei giorni si castrano anche i montoni.

***

Non è possibile purtroppo stabilire se Giorgio Taborelli, morto nel 2011, sia mai stato di persona nella valle dell’Esaro; lo scrittore comunque la descrive con una inaspettata sagacia narrativa.
Le placide greggi governate da pastori e cani che don Juan incontra mentre si sposta verso San Sosti, rimandano alla transumanza dei pastori di Rotonda che nell'ottocento svernavano nei territori d’oltre Pollino, in lande ove i nobili locali accampavano gabelle di ogni sorta.
Il mare di lana che nella descrizione di Taborelli si muove da ogni rivolo del feudo dei Sanseverini per i polverosi sentieri dell’Esaro, ha sempre lambito questa terra. Esso si fonde con i tre colori che la buona stagione sembra offrire: il verde intenso degli alberi, l’azzurro pulito del cielo e il bianco delle lingue di neve che è possibile scorgere da lontano sui cateti di una geometrica montagna chiamata Muletta.
L’esercito di personaggi addetti alla tosa, sembra poi far rivivere l’epopea settembrina dei mandriani che si spostavano per raggiungere San Sosti, da ogni angolo della Calabria e accompagnati da cani ed asini, tende e vettovaglie, surduline e zampogne, organetti e calascioni, governavano gli animali in procinto di essere venduti alla fiera del Pettoruto.

***

Le popolazioni del luogo sono assuefatte al tanfo del sangue: “sono ingordi cacciatori e mangiatori di carne”, scriverà nell'ottocento l’abate Vincenzo Padula.
La puzza di selvaggio ed asprigno che, in occasione di certe battute di caccia al cinghiale si avverte ancora oggi, rivela come in queste contrade il diritto primordiale alla sopraffazione di altre specie sia ben salvaguardato ed anzi benedetto. Il nume tutelare di queste terre dovrebbe essere sant'Uberto, il sanguigno protettore dei cacciatori ed invece è una santa mite e pallida come il latte, la protomartire santa Caterina d’Alessandria.
Anche questo particolare contraddittorio dello spirito del luogo è recepito dal don Juan di Taborelli.
Davanti al padiglione ove il giovane Tenorio ha stabilito il suo quartiere generale c’è un ariete che si agita; prima che la tosa abbia inizio deve essere ucciso. Un prete per tre volte benedice il morituro che viene legato a testa in giù per le zampe posteriori.   A don Juan spetta il compito di ucciderlo e lui non si sottrae al rito cruento. Un vecchio gli indica il punto esatto dove infilare il coltello dalla lama triangolare.
Un gesto pieno di raccapriccio che nella valle dell’Esaro si ripete da secoli, specialmente durante le gelide mattinate d’inverno, quando i maiali sono uccisi con un fendente alla giugulare e il loro stridulo ed inascoltato lamento rimbomba per boschi e dirupi.
Il fluido rossastro dell’animale rende il giovane Tenorio confuso. Nel ripensare alla scena dell’ariete al quale poi viene tagliato lo scroto e vengono estratti i testicoli, il riposo notturno del nobile di Siviglia non è più lo stesso: davanti alla sua tenda sembrano muoversi scomposte le ombre del Giudizio Universale.

***
Unico motivo di svago per don Juan è la sfilata della Festa dei Mesi alla quale assiste per due volte.
Ogni mese è impersonato da trenta paesani che fanno i gesti dei lavori che si susseguono durante il ciclo delle stagioni: zappare, seminare, sarchiare, potare, mietere, bacchiare, raccogliere, vendemmiare, mungere, pigiare, torchiare, trebbiare, intrecciare, macinare, macellare, salare, insaccare. Le comparse agghindate in povere vesti sono accompagnate da altre persone, uomini e donne, che recano i frutti, i grani, gli alberi, le bestie corrispondenti all'opera di cui si rappresentano i gesti scarni e ripetuti.
È un rito pagano, scaramantico e propiziatore.  I riti religiosi in queste terre sono inefficaci e non difendono le popolazioni del luogo dalle forze maligne della natura.
Proprio in questi giorni don Juan conosce una ragazza albanese, una parente del Cavaliere di San Demetrio Corone, che fino all'anno prima abitava a Durazzo. Parla un idioma strano, un po’ provenzale ed un po’ catalano.
Nel suo letto, tra le montagne di San Sosti l’adolescente don Juan, nei giorni della Festa dei Mesi e della tosa, si ritempra fino a diventare esperto nei giochi dell’amore e dorme per la prima volta, dalla sera al mattino, con una donna.
Rinfrancato da tanto ardore, il giovane cavaliere della nobile famiglia dei Tenorio si sente pronto a percorrere le imperiose strade del mondo che lo porteranno nelle Fiandre degli arciduchi e degli eretici, negli Stati del “Gran Turco” e anche verso il Nuovo Mondo, con la rinnovata identità di Donhuàn il Magnifico.
Sul finire della sua visita a San Sosti, don Juan Tenorio y Rodriguez de Urtago stabilisce anche una impudica relazione con un nuovo compagno: il vino. Quello che beve caldo e addolcito col miele cotto è vigoroso come quello spagnolo, che gli procura una ebbrezza grave e composta ed una sonnolenza che non si spegne nel sonno.
Giorgio Taborelli, che ha dato anima e corpo ad un don Giovanni così passionale e fragile, forse sapeva finanche che un vino nerboruto e lucente per molto tempo ha diffuso allegria nella valle dell’alto Esaro.  Ora è un nettare introvabile, poiché in queste terre quasi spopolate, un antico sortilegio fa svanire solo le cose migliori.  Esso nasceva ad un vitigno, il Guarnaccia, portato in ogni recesso dell’alta Calabria proprio dagli spagnoli.  In Spagna si chiama tuttora Garnacha e le sue uve vengono trasformate  in “Sangre de Toro”, un vino profumato e corposo, che naturalmente del sangue del toro ha solo l’intenso colore.

Bibliografia
Giorgio Taborelli, Il giardino dei melograni, Ponte alle Grazie, 2006


© 2009 francescocapalbo.blogspot.com
Tutti i diritti di copyright sono riservati. Nessuna parte di questo post può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo cartaceo, elettronico, meccanico o altro senza l'autorizzazione scritta del proprietario dei diritti.

venerdì 31 maggio 2019

Collera sovranista



di Francesco Capalbo

Anche nella valle dell’Esaro il 26 di maggio si è votato.
 A Malvito, Sant’Agata di Esaro, San Donato di Ninea e Santa Caterina Albanese primo partito è risultato il Movimento 5 Stelle. A San Sosti il successo della Lega di Salvini è stato eclatante: 28,01%.
In tutti e sei i paesi le forze populiste hanno totalizzato più del 50% dei voti, consolidando il risultato delle passate elezioni politiche.
Solo la Democrazia Cristiana e il Partito Social Democratico di Costantino Belluscio e Paolo Bruno nei decenni passati sono stati in grado di raggranellare percentuali di siffatta portata.
Una avanzata elettorale così sostanziosa non ha però determinato sconvolgimenti significativi in campo amministrativo.
Nei paesi in cui si votava anche per le comunali hanno vinto i ceti e i gruppi di sempre, abili solo nel prolungare l’agonia delle loro comunità. I sindaci neo eletti hanno però dimostrato di saper neutralizzare, piegandola con furbizia, l’orda elettorale nibelunga.
Gli elettori del Movimento 5 stelle e della Lega nella valle dell’Esaro dal canto loro appaiono lesti solo quando indirizzano i loro dardi contro i plutocrati di Bruxelles.
Quando il voto riguarda il periplo dei luoghi dove consumano la loro esistenza, le frecce della loro indignazione restano nascoste nelle faretre.
Di colpo si dimenticano dei banchieri ladroni e dei magnati corrotti e votano per quanti garantiscono loro un futuro di certa insoddisfazione.
“Sempre pronti ad urlare la nostra indignazione contro chi è distante mille miglia” potrebbe essere definito il ricorrente motteggio della loro collera sovranista.

sabato 23 febbraio 2019

I nuovi barbari



di Francesco Capalbo
  
C’era un tempo in cui le scoregge si facevano di nascosto, i pensieri xenofobi erano curati come pustole dell’inconscio e gli errori di grammatica considerati bernoccoli da lenire con impacchi di buone letture.
Ora che i nuovi barbari esibiscono senza remore le turbolenze dei loro intestini, il razzismo è considerato “esperimento didattico”, il congiuntivo confuso con una affezione degli occhi e le buone maniere retaggi di epoche passate.
Attila sembra essersi reincarnato in tanti feroci replicanti che scorrazzano per il web con la bava alla bocca  e oltraggiano in punta di clava sia la grammatica che i policromi, i dissimili, i discordi… gli umani.


sabato 9 febbraio 2019

I barbari alle porte e gli ascari di Cosenza




di Francesco Capalbo

A Cosenza il consigliere comunale del PD Marco Ambrogio, capogruppo uscente alla Provincia, è stato escluso dalla lista dello stesso partito per il rinnovo dei consiglieri provinciali, perché accusato di essere la stampella di Occhiuto, sindaco forzista della città.
Stando a quanto dichiarato dallo stesso consigliere, la notizia dell’esclusione gli è stata comunicata dal segretario provinciale, che ha indicato nei coniugi padroni del PD cosentino, i mandanti della draconiana decisione: “Mi dispiace, devo portare la tua testa sul piatto di Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio. Se ti candido sono finito”.
Se l’accaduto fosse confermato, dimostrerebbe che nel PD cosentino è in atto una vera e propria trasformazione organizzativa e militare. Per fronteggiare le virulenti truppe salviniane, il PD di Cosenza sembra voglia trasformarsi in un battaglione di ascari eritrei. Da un po' di tempo è infatti dominante la tesi che solo  un partito comandato da graduati "sciumbasci"(1) che tagliano la testa ai dissidenti e largheggiano nell'uso del “curbasc”(2) sarebbe  in grado di resistere ai nuovi barbari che ormai premono con insistenza alle porte della nostra regione.


(       (1) Sciumbasci: grado militare delle Truppe coloniali italiane, equivalente al grado di maresciallo del Regio esercito
          (2) Curbasc: Scudiscio in pelle d’ippopotamo usato dalle Truppe coloniali per le punizioni corporali