venerdì 1 maggio 2009

Dell'emigrazione e della dignità del lavoro manuale

di Francesco Capalbo

Non c’è occasione migliore della Festa del 1° Maggio per narrare una storia di emigrazione che ebbe il suo triste epilogo nell’aprile del 1892.
Mi rendo conto che ci è dato di vivere in una epoca in cui le persone non amano sentire il racconto delle storie passate, specialmente se in tali vicende i protagonisti sono rappresentati con gli stessi abiti laceri di quanti ai nostri giorni invocano aiuto varcando i mari delle bulimiche società occidentali. Forse abbiamo rimosso il ricordo di quando i nostri nonni erano descritti come disperati, per non essere costretti ad ammettere che si tratta della stessa disperazione che troviamo incarnata sul viso dei lavoratori stranieri, che abitano i margini delle nostre periferie.
Siamo un popolo che ha in odio non solo la memoria, ma anche le immagini e gli odori che emano le nuove forme di povertà. Viviamo in uno stato di narcolessia collettiva, indotta da quanti esaltano solo i volti raffiguranti la ricchezza e i profumi che effondono le veline, sacerdotesse delle moderne ostentazioni.
E’ utile pertanto ricordare, proprio oggi che è il Primo Maggio, come la nostra ricchezza sia stata generata dal sudore degli emigranti, maleodorante quanto si voglia, ma dignitoso e pertanto simile a quello degli stranieri che oggi lavorano in Italia.
Francesco Cauteruccio, di cui si parlerà di qui a poco, per molto tempo visse a San Sosti, anche se era nato a Buonvicino il 10 marzo del 1843. Figlio di Ciriaco e di Marianna Amoroso, faceva il fabbro ferraio, così come tutti i membri della sua famiglia. Giovanissimo emigrò dapprima a Valencia in Spagna, poi nel 1887 a San Francisco di California e da lì a Montevideo, città nella quale lo ritrae,con tanto di bastone e di bombetta posata sulla colonna, la foto scattata nel Nuevo Estudio Fotografico Dolce Hnos, in Calle Ibicuy n°85, e pubblicata a corredo della storia. Nella stessa foto l’emigrante mette in mostra con orgoglio, una decorazione ottenuta per aver partecipato nel 1870 alla presa di Porta Pia.
Nel suo peregrinare per il mondo fu accompagnato dalla moglie Rosa Vidiri, che gli fu accanto anche nell’ultima tappa del viaggio: Campinas, città dello Stato di San Paolo del Brasile, già all’epoca importante mercato del caffé e famosa per le industrie metalmeccaniche ed alimentari, nelle quali molti emigranti italiani prestavano la loro opera.
Francesco Cauteruccio morì di febbre gialla, una malattia endemica per quelle terre, il 10 aprile del 1892. Qui di seguito è pubblicata la lettera, dettata al suo datore di lavoro, Cesare Caversazzi, dalla moglie Rosa Vidiri, con la quale venne comunicata ai familiari rimasti in Calabria, la morte del congiunto.
Essa costituisce un frammento delle “mille memorie” alle quali abbiamo dedicato il nostro Blog, che oggi ha la presunzione di parlare sia dell’emigrazione, che della dignità del lavoro manuale.

***

Campinas, il 14 Aprile 1892

Caro cognato Giovanni,
Come lo vedrete nella lettera che vi scrive il signor Cesare Caversazzi, mio padrone, io ho avuto l’infelicità di perdere il mio marito il giorno 10; è morto della febbre gialla, quella malattia di cui avete sentito parlare tante volte.
Non so davvero come contarvi tutta la mia disgrazia e per questo ho domandato al padrone di farlo.
Dopo che siamo arrivati qui in Brasile,siamo sempre stati nella stessa casa, io impiegata nei servizi di casa e lui, andando tutti i giorni in città per lavorare nel suo ufficio di fabbro ferraio.
Siamo in campagna, presso della città e qui non c’era pericolo di venire la febbre.
I padroni le dicevano sempre e io lo pregavo tutti i giorni di rimanere qui, ma voi conoscete il vostro fratello, lui non ci ha ascoltato, perché diceva sempre che non poteva lasciare il suo ufficio,che aveva un buon guadagno, di 8 lire al giorno e voleva approfittarne; il suo padrone lo voleva molto bene e diceva anche a lui di non aver paura.
Tante volte le ho detto di lasciare di restare qui, dove anch’io ho una buona mesata, dove c’era tutto il necessario per lui,la casa e lo mantenimento senza avere da spendere un soldo. E’ stata la volontà di Dio che l’ha chiamato da Lui; io sono rimasta sola, poveretta e adesso penso sempre a ritornarmi al paese; i padroni sono molto buoni, volevano molto bene al mio povero Francesco, e mi hanno promesso di aiutarmi a fare il viaggio.
Gli ultimi giorni che lui era qui aveva mandato in Italia il denaro per pagare il debito a Benigno Mele, ed era felice di averlo fatto; non so come comprendere che Dio ha voluto; mi metto nelle sue mani divine, sono rimasta sola, il mio povero Francesco se n’è andato da lui!
Ditelo, che prego a mia madre, che ho patito questa disgrazia e che non me ne posso consolare.
Quanto ho sofferto, Dio mio!
In cinque giorni è stato ammalato ed è morto.
Cerco di farmi coraggio perché adesso ho da curare io stessa dalla mia vita e per ciò bisogna lavorare.
Non ho mai creduto che avrei da mandarmi questa brutta notizia di qui, avevamo fatto gli ultimi giorni tanti belli progetti per il nostro ritorno presso dei parenti e adesso è tutto finito. Addio caro cognato, pregate tutti per lui che è stato sempre buono e coraggioso.
Vostra cognata
Vidiri Rosa




© 2009 Francesco Capalbo

1 commento:

  1. Complimenti per la bellissima riflessione e per la storia toccante che ci hai rievocato. Non ci sono parole per aggiungere altro, lo hai già fatto tu egregiamente. Vorrei solo rimarcare un punto della riflessione rivolgendomi ai giovani che si trovano nell’era del benessere e non immaginano i sacrifici che i nostri nonni hanno fatto per noi. La ricchezza che ci stiamo godendo non è caduta come manna dal cielo ma è il risultato di tanto duro lavoro che dobbiamo sempre apprezzare e lodare. Quanto agli immigrati, sicuramente, ne esiste qualcuno che ha potenzialità superiori alle nostre, proprio come i nostri nonni hanno dimostrato di averne avute quando erano costretti ad emigrare in cerca di lavoro, cent’anni fa. L’essere umano va apprezzato per quello che vale, come persona, non certamente per la sua ricchezza o per il suo potere. La disonestà in una società libera non deve essere permessa né quando nasce dagli stranieri né quando si annida nelle sacche della realtà nostrana. L’immigrato deve essere tutelato, quando sbaglia corretto o punito, al pari degli altri, però mai disprezzato ed emarginato. Siamo tutti figli di Dio, dobbiamo volerci bene, rispettarci, pretendere dallo stato regole precise ed imparziali, impegnarci a rispettarle e a farle rispettare.
    Antonio Vigna

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