sabato 23 maggio 2009

I girasoli: memorie di guerra


di Adelina Cataldo

Partimmo giovani e carichi di entusiasmo per l'avventura bellica che ci si prospettava: "Bisogna difendere la patria", pensavamo, mentre, neppure una volta, ci sfiorò l'dea che, più che di difesa, si trattasse di una vera e propria invasione.
Il 21 giugno 1941, Hitler aveva dato ordine alle proprie divisioni di iniziare l’operazione “Barbarossa”, cioè l’invasione dell’Unione Sovietica.
Mussolini fu avvisato solo ad operazioni iniziate e, dopo aver smaltito l’umiliazione di non essere stato consultato preventivamente dall’alleato, decise che anche l’Italia fascista dovesse contribuire alla sconfitta del comunismo e predispose un primo invio di truppe.
CSIR, ossia Corpo di Spedizione Italiano in Russia, era il nome di questo primo insieme di truppe che comprendeva un totale di circa 50.000 uomini, 5.000 automezzi, 4.600 quadrupedi ed 80 aerei. I nostri soldati calzavano scarponi di cuoio con 72 chiodi cadauno ed indossavano divise di tessuto grigioverde buone per tutte le stagioni. Erano armati con moschetto Manlincher Carcano mod. 1891, poche armi automatiche, bombe a mano “offensive” che facevano più rumore che danni, ed artiglieria, spesso, risalente al primo conflitto mondiale. Quasi nulla era la dotazione di carri armati. Il CSIR fu impiegato alle dipendenze del 3° corpo corazzato tedesco, al comando del gen. von Kleist, sul fronte del fiume Dnestr, e si comportò bene, sostenendo l’avanzata e conquistando vari centri importanti.
Nel giugno del 1942, Mussolini decise però di aumentare il contributo italiano contro l’odiato comunismo sovietico e fu creato l’ARMIR, ovvero l’Armata Italiana in Russia. Io mi gloriavo di far parte di questa nuova grande unità italiana, comprendente un totale di circa 230.000 uomini. Anche l’ARMIR all'inizio si comportò bene, ma, con l’arrivo dell’inverno a cavallo tra il 1942 ed il 1943, ebbe inizio la tragedia.
Eravamo schierati sul Don, a protezione del fianco sinistro della 6ª Armata tedesca che assediava Stalingrado, col compito di difendere un settore di fronte lungo circa 300 Km.Il settore all’estrema sinistra delle posizioni italiane era presidiato dagli Ungheresi, mentre l’ala destra era tenuta dai Romeni.
Le nostre truppe furono coinvolte e travolte dalla massiccia offensiva invernale dell’Armata Rossa, che aveva come obiettivo principale quello di chiudere in una sacca le truppe tedesche che circondavano Stalingrado. La rottura del fronte tenuto dai Romeni e, a Sud, dai tedeschi, mise in crisi l’intero fronte del Don. Infatti, pur non essendo chiuse nella sacca, già dalla fine di novembre ’42, le truppe italiane ebbero l’ala destra scoperta.
Fu l’inizio della fine.
L’11 dicembre iniziò l’attacco russo contro il nostro 2° Corpo d’Armata che provocò la rottura del fronte e l’inizio dell’aggiramento delle posizioni italiane. In conseguenza di ciò, si aprì il primo atto della tragedia della ritirata. Furono quarantacinque giorni d’inferno nella steppa russa, freddo, gelo, vento, incursioni di carri armati, mitragliamenti e bombardamenti aerei, quaranta gradi sotto zero senza cibo, con indumenti laceri, il giorno iniziava e finiva unicamente nella marcia. Dopo qualche anno, appresi che, su 220.000 soldati, solamente 100.000 riuscirono a salvarsi, gli altri furono catturati dai russi, uccisi, morirono congelati o vennero dichiarati dispersi. In seguito, si era congetturato che molti dispersi si sbandassero volontariamente nelle campagne russe, divenendo disertori.
In quel momento di enorme stress fisico e mentale, mi tornarono in mente quei compagni che qualche tempo prima, avevo visto allontanarsi, alla ricerca di semi di cui cibarsi, e che poi avevano preferito restare accovacciati nei campi di girasole, approfittando di quei fiori alti per nascondersi e disertare. Erano i cosiddetti "girasoli", soldati volontariamente sbandati e dispersi negli immensi campi di fiori gialli.
Tentare di descrivere ciò che accadde nelle steppe russe in quell’inverno del 1943 è praticamente impossibile per chi ha avuto la fortuna di non essere testimone diretto di quegli eventi; si può solo avere un’idea dell’inferno che fu la ritirata dei nostri reparti. Fummo costretti a percorrere a piedi centinaia di chilometri sfuggendo a un nemico che ci circondava e ci attaccava a piacimento. Fu proprio in occasione di uno di questi assalti che io e il mio compagno, il soldato semplice Pirillo, fummo costretti ad allontanarci dal nostro reggimento, e approfittando della confusione, demmo inizio, anche noi" alla nostra avventura da "girasoli". La vita da sbandato, però, non era certo semplice. I carri armati sovietici T 34, i cosacchi con le loro cariche selvagge, ed i partigiani continuavano a seminare morte e panico, ma il pedaggio più caro fu pagato all’inverno che, quell’anno particolarmente rigido, fece scendere la temperatura fino ai 40°, 45° sottozero. In condizioni simili, la vita umana diviene difficile, tanto più se si è costretti a marce forzate, senza cibo e riparo dalle intemperie e con abbigliamento del tutto inadeguato al clima.
Fortunatamente, dopo non so quante ore di cammino, quando era ormai scesa la notte, giungemmo a un gruppo di piccole isbe (così venivano chiamate le capanne dei contadini della steppa russa, costruite con tronchi di albero e ricoperte di paglia o frasche) e decidemmo di bussare ad una di quelle piccole porte. Dall'interno nessuna risposta, così provammo ad aprire con forza e alla fine il legno poroso e mezzo gelato cedette, permettendoci di accomodarci all'interno. La capanna era piccola, come una stanza e sembrava disabitata da tempo. C'era un piccolo focolare, ma nessuna pentola o attrezzo da cucina nei dintorni. A terra un po' di paglia e in un angolo qualche straccio e un sacco, non molto grande, che le Provvidenza sembrava aver messo lì appositamente per noi; conteneva semi di girasole, seppure vecchi di anni, e con qualche verme ormai congelato all'interno, e dopo una cena a base di quell'alimento, avvolgemmo i piedi negli stracci, e ci addormentammo sul pavimento, infreddoliti, ma grati di essere ancora vivi.
Alle prime luci del giorno, la sola vista della neve risultava più ripugnante che mai, ma bisognava pur uscire e cercare qualcosa da mangiare. Il paesaggio attorno non era dei più promettenti, ma non molto distante da lì era un'altra isba, un po' più grande, con un piccolo recinto da un lato, pochi tronchi di legna accatastata e un orto con qualche foglia verde che da lontano non riuscivamo ad associare ad alcuna pianta in particolare. Sulle piantine, una donna, magra e apparentemente giovane chinata, intenta a raccogliere qualche foglia o ortaggio che non si riusciva a distinguere. Iniziammo ad avanzare in quella direzione, senza sapere esattamente cosa dire o fare, mentre la donna si apprestava a rientrare. Doveva averci scorto però, perché si fermò davanti alla porta, per nulla intimorita, mentre noi cercavamo di apparire quanto più innocui possibile. Accennammo ad un sorriso e ad una sorta di saluto. La donna, che poteva avere 25-26 anni al massimo, era alta, bionda, con la carnagione chiara , gli occhi castano chiari e le guance rosse e screpolate dal freddo.
Non conoscevamo la lingua, ma a gesti riuscimmo a farle capire il nostro stato, che doveva essere più che evidente già dall'aspetto. Eravamo, stanchi, infreddoliti e affamati e la giovane, con nostra grande meraviglia ci fece cenno di entrare. Nella capanna, un terribile tanfo causato dallo sterco che, in seguito, apprendemmo essere uno dei materiali di lega usata dai contadini per le loro capanne, a quanto pare, piuttosto efficace per isolarsi dal vento freddo. Vicino al focolare, ancora spento, ma forse con qualche brace della sera precedente, una donnina anziana, seduta su una specie di panca fatta di tronchi d'albero. L'anziana ci guardò sbigottita, ma la giovane corse subito a tranquillizzarla, pronunciando più volte la parola "ба́бушка", che in seguito apprendemmo significa "nonna". Non so come, ma in poco tempo entrammo a fare parte di quella piccola famiglia, a cui la guerra aveva strappato via gli uomini, padre e fratelli della giovane, e che pertanto necessitava di braccia forti per il lavoro nell'orto e soprattutto per procurare la legna, che, nell'inverno russo, risultava più preziosa anche del cibo. Continuammo a dormire nella piccola isba abbandonata, ma durante il giorno prestavamo il nostro lavoro in cambio di cibo e di un po' di legna per noi.
Trascorremmo due anni nel villaggio, e nel frattempo l'anziana donna morì e Pirillo si trasferì dalla nostra giovane amica, che nel frattempo era diventata la sua compagna e la madre di suo figlio. I giorni si susseguivano lenti e tutti uguali. Un giorno presi il coraggio a due mani e mi incamminai verso la ferrovia, sapendo che quella rappresentava l'unica speranza di rientrare in patria. Presi con me poche cose e iniziai a camminare attraverso la steppa, dove la neve e il ghiaccio avevano lasciato un terreno morbido e fangoso, non proprio agevole. Dopo un intero giorno di cammino intravidi finalmente i binari. Decisi di aspettare e di saltare sul primo treno merci che passasse di lì, e così feci. Sarebbe troppo lungo raccontare gli stenti e le varie peripezie di quel viaggio, ma dopo non so nemmeno quanti giorni (nei vagoni, tra un treno e l'altro, una dormita e l'altra, si confondevano il giorno e la notte), arrivai in Italia, in Veneto, raggiungendo infine Zianigo, una frazione a circa 3 km a nord ovest del comune di Mirano.
Lì mi accolse una famiglia di contadini, presso la quale restai in segreto per un po' di tempo, visto che le parti si erano nel frattempo invertite e i tedeschi ora davano la caccia ai soldati italiani, ritenuti traditori. La famiglia mi dimostrò una lealtà e un affetto senza precedenti, soprattutto in occasione di una visita da parte di alcuni soldati tedeschi alla ricerca di rifugiati. Mi avevano nascosto in una botola sotto al pavimento, e per pura fortuna ai soldati non venne in mente di scostare quel tappeto.
La figlia maggiore della coppia era una giovane di circa venti anni, semplice, bruna e molto attraente, di nome Emma. Ci innamorammo quasi subito; era inevitabile che accadesse, ma il nostro era un sentimento puro e a causa della mia gratitudine verso la famiglia non mi sarei mai sognato di mancarle di rispetto. Decisi pertanto di sposarla; glielo proposi e lei reagì con grande entusiasmo e commozione. Nel frattempo, la guerra era finita anche in patria, ed era giunta l'ora di ritornare a casa, in Calabria, dove mia madre mi piangeva ormai per morto. Mi diedero una bicicletta e un fagotto di stoffa con dentro alcuni viveri, e così partii, con la promessa che sarei tornato per sposare la mia Emma.
Anche questo viaggio fu lungo e pieno di imprevisti. Mi vedevo costretto ad accamparmi per la notte, soprattutto perché non c'era visibilità sufficiente per proseguire, e una volta che tentai di farlo, mi fermai appena in tempo sul ciglio di un precipizio creatosi a causa di un ponte crollato, distrutto dai bombardamenti. Ci vollero nove giorni per raggiungere il paese, ma la gioia che provai mi fece dimenticare tutta la fatiche e le sofferenze. Mia madre pianse due giorni dalla felicità, e ancor più quando le dissi che stavo per sposarmi. Mi disse che avremmo fatto una grande festa, con musica e tanti fiori.
"Tanti Fiori?", risposi un po' distratto, "Sì, tanti girasoli gialli."



Il racconto breve è di Adelina Cataldo che, nata a Chicago, vive ora a San Lucido (Cs); è lettrice d’Inglese presso l’Università della Calabria.
La foto riproduce “ Campo di girasoli” un acquerello, cm 30 x 40, di Sergio Tisselli del 2007 e proviene dal sito: http://colory55.blogspot.com.



© 2009 Francesco Capalbo