lunedì 18 maggio 2009

Mario La Cava. Il mestiere di essere uomo

di Grazia La Cava

Mi è stato chiesto di scrivere questa breve nota per testimoniare cosa significhi essere figlia di uno stimato scrittore.
Nel mio caso, però, la cosa più straordinaria ed affascinante da raccontare e condividere credo sia l’aver vissuto per quasi trent’anni accanto all’”uomo” Mario La Cava. Lo scrittore può essere letto e valutato attraverso i suoi scritti; chi ha avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, credo ne sia rimasto completamente affascinato ed incantato dalla sua disarmante semplicità e disponibilità. Chi, come me, ha avuto il privilegio di ricevere il suo affetto paterno ed un’educazione non certo usuale, può solo dispiacersi di non aver saputo cogliere per intero le opportunità e gli innumerevoli stimoli intellettuali che provenivano dall’essere accanto ad un uomo così straordinario e singolare.
La curiosità verso l’animo umano: questa è stata la sua costante peculiarità, e questa sua curiosità lo portava alla ricerca del dialogo con le persone più umili e semplici perché lì trovava grande umanità; ed ascoltava con interesse anche le cose che a noi potevano sembrare banali e prive di significato. Non ascoltava: egli osservava, scrutava, leggeva ciò che le parole non riuscivano a descrivere; e ciò che solo lui era capace di interpretare, lo custodiva come qualcosa di prezioso; e costantemente si nutriva di questo.
Ricordo che la nostra casa, nel periodo della mia infanzia, è stata regolarmente un luogo d’incontro di personaggi che si alternavano e si diversificavano con straordinaria naturalezza: capitava, infatti, che nello stesso giorno si riceveva la visita di uno dei tanti intellettuali che ne erano abituali frequentatori (Seminara, Maganzini, Buttitta, Sciascia, ecc.) e, al tempo stesso, il contadino che ci omaggiava della frutta e degli ortaggi appena raccolti. La straordinarietà dell’”uomo” stava proprio nel porsi nei confronti dell’interlocutore – chiunque egli fosse - in una condizione sempre paritaria senza che il suo status di uomo colto potesse in qualche modo intralciarne il dialogo e sempre con immutato rispetto del pensiero dell’altro. Ognuno, conversando con lui, si sentiva sempre a proprio agio e riusciva a tirar fuori il meglio di sé.
Noi ragazzini abbiamo vissuto un’infanzia nella più totale normalità e, come tutti quelli della nostra età, eravamo distratti da ciò che succedeva fuori dal nostro piccolo-grande mondo di casa. Ma ricordo che le poche volte che rimanevo in casa senza uscire con gli amici capitava proprio quando essi venivano a trovarmi: rimanevano, infatti, per ore a discutere con lui e, si badi bene, per niente disagiati o annoiati; semplicemente ci si era dimenticati del mondo fuori. Ed io non riuscivo a comprendere: non avevo ancora capito che la mia casa era tutto un mondo.
Mi piace pensare che il vero mestiere di mio padre non sia stato quello dello scrittore: la scrittura è stata lo strumento per raccontare ciò che solo lui era in grado di scrutare e intendere dell’animo umano.


Bovalino, 16 Maggio 2009




Nota di Francesco Capalbo

Scritto appositamente per “Mille storie,mille memorie”, l’articolo è di Grazia La Cava, figlia di Mario La Cava che al pari di Corrado Alvaro, Leonida Repaci, Fortunato Seminara e Saverio Strati è riconosciuto dalla critica come uno dei maggiori scrittori calabresi.
Nato a Bovalino l’11 settembre del 1908, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, si dedicò per intero alla scrittura con l’unico obiettivo “di dar voce ai più umili” della nostra terra.
La sua prima opera fu “Il matrimonio di Caterina” del 1932, dalla quale il regista Luigi Comencini, che accumunava Mario La Cava a Flaubert, trasse un film per la televisione .

Altre opere furono: “Caratteri” (1939), “I misteri della Calabria” (1952), “Colloqui con Antonuzza”(1954), “Le Memorie del vecchio maresciallo” (1958), “Mimì Cafiero” (1959), “Vita di Stefano” (1962), “Viaggio in Israele” (1967), “Una storia d’amore” (1973), “I fatti di Casignana” (1974), “La ragazza del vicolo scuro” (1977), “Terra dura” (1980), “Viaggio in Lucania” (1980), ”Viaggio in Egitto e altre storie di Emigranti” (1986), “Tre racconti”(1987), “Una storia a Siena”, (1988), “Opere teatrali” (1988), “Ritorno di Perri”(1993).
Elio Vittorini, che nel 1953 curò la presentazione del volume “Caratteri”, evidenziò come Mario La Cava conoscesse “il gusto dell’imitazione dei classici e lo studio naturalistico del prossimo”.
Per Leonardo Sciascia, lo scrittore calabrese costituiva invece un modello da imitare per quanto riguardava la semplicità, l’essenzialità e la rapidità della sua scrittura.
Mario La Cava morì il 16 novembre del 1988.
Pubblicando l’articolo della figlia Grazia vogliamo proporre lo scrittore bovalinese come esempio cui ispirarci per la rinascita culturale, umana e sociale della Calabria, di cui siamo in molti ad avvertirne il pressante bisogno.
La lettura delle sue opere potrebbe dispiegare a nostro avviso effetti positivi sull’animo di noi calabresi proprio mentre, con una sfrontatezza inusitata, si dà credito a modelli e comportamenti destinati a perpetuare lo stato di sofferenza della nostra terra. La Calabria è abitata in gran parte da gente onesta e laboriosa; ad essa Mario La Cava intendeva dar voce. Noi, ricordandolo con le parole della figlia Grazia, ne vogliamo far conoscere la nobile arte, poiché siamo consapevoli di navigare in mari tempestosi, nei quali venti infidi sembrano destinati a devastare le nostre fragili vele.



Le foto sono pubblicate per gentile concessione di Grazia La Cava.
La seconda ritrae lo scrittore da solo; mentre nella prima, del 1975, è in compagnia della sua famiglia. La figlia Grazia, seduta nella seconda fila, è la terza da sinistra.



© 2009 Francesco Capalbo